Scandalo Vernola, la Corte dei Conti
la condanna ma nel penale fu assolta L’incubo di un’assistente giudiziario |Video

di Manuela Galletta

Quando al Tribunale di Torre Annunziata, agli inizi del Duemila, scoppiò lo scandalo Vernola, Emila Salomone era assistente giudiziario. Con Domenico Vernola, ribattezzato di lì a poco il cancelliere d’oro, ci aveva lavorato. Ed era anche in buoni rapporti, tanto è vero che si rivolse a lui per un prestito (restituito in parte) allo scopo di acquistare un appartamento. Tuttavia, qualche anno prima, siamo nel 1996, Emilia Salomone non esitò a segnalare al suo dirigente che c’erano delle stranezze nella compilazione, da parte di Vernola, dei mandati di pagamento. Quella segnalazione cadde nel vuoto. Nessuna anomalia venne rilevata né allora né due anni più tardi dagli ispettori del ministero giunti a Torre Annunziata a controllare carte e documenti. Emilia Salomone, nell’amministrazione della giustizia da 40 anni, tirò un sospiro di sollievo e guardò avanti. Poi agli inizi del Duemila lo scandalo, la scoperta che Domenico Vernola aveva falsificato i mandati di pagamento intascandosi ben 30 miliardi delle vecchie lire e l’inizio di un incubo. Un incubo processuale che il 18 aprile 2017 stravolge la vita di Emilia Salomone: la Corte dei Conti di Roma, in funzione di Appello, la condanna senza se e senza ma a risarcire lo Stato per i danni arrecati da Domenico Vernola. La condanna a pagare perché la ritiene responsabile di non aver evitato la frode. Eppure sul piano penale Emilia Salomone è stata scagionata da ogni accusa con sentenza definitiva perché altri giudici hanno ritenuto che non ci fossero elementi per ritenere abbia agito con dolo, allo scopo cioè di favorire Vernola nello svuotamento delle ‘casse’.
La storia (paradossale) rischia oggi di costare ad Emilia Salomone una cifra blu: la donna è stata condannata a pagare 7 milioni di euro in solido con Domenico Vernola, e 5 milioni e 700mila euro (in concorrenza) con l’allora procuratore Alfredo Ormanni, pure lui travolto dallo scandalo perché gli è stata addebitata un’omessa verifica dei modelli ‘manomessi’. Con l’aggravante, rispetto alla cifra da corrispondere insieme a Vernola, che laddove l’ormai ex cancelliere d’oro non avesse i soldi necessari a coprire il debito, l’intera somma dovrà essere versata da Emilia Salomone, che invece ha un reddito in ragione della sua posizione lavorativa. La Corte dei Conti nello specifico le contesta di aver «dato un effettivo apporto causale» alla truffa perché «non fece seguire alle lamentele verbali, una denuncia scritta degli illeciti» ma «perpetuando la registrazione e accontentandosi delle inverosimili giustificazioni» del dirigente cui aveva rappresentato le stranezze e di Domenico Vernola, che l’aveva rassicurata. «Se la stessa avesse segnalato nelle opportuni sedi (ispettive, e eventualmente penali) le anomalie riscontrate – incalzano i magistrati contabili – allora il danno sarebbe stato arginato e le condotte delittuose scoperte molto prima del 2002». Aggiungendo per giunta perplessità su una questione privata che ha riguardato Emilia Salomone e Domenico Vernola, ma che inevitabilmente è diventata materia di discussione: Emilia Salomone aveva chiesto un prestito a Vernola (ottenendolo) per poter acquistare casa. Ecco, questa circostanza ha indotto i giudici della Corte dei Conti a ritenere che «la Salomone sia stata attratta nella rete associativa di Vernola» proprio grazie a quel prestito. La valutazione dei magistrati contabili fa a pugni con le conclusioni cui giunsero nel luglio del 2016 i giudici della Corte d’Appello di Roma, i quali mandarono assolta Emilia Salomone «perché il fatto non costituisce reato» cancellando così il verdetto di colpevolezza invece emesso nel 2014 all’esito del processo di primo grado. Per l’Appello l’assistente giudiziario non aveva «alcun potere di controfirma né di controllo previsto da alcuna disposizione normativa, trattandosi di atti formati dalla segreteria della procura e dello stesso procuratore rispetto ai quali l’imputata doveva limitarsi ad una semplice trascrizione sul modello 12 tenuto dal Tribunale anche per i mandati della procura». A testimoniare l’innocenza della Salomone, peraltro era stato lo stesso Vernola che ai pm riferì di aver tratto in inganno la donna. Anche l’episodio del prestito fu letto in maniera diversa: ossia un semplice piacere che Vernola, all’epoca considerata una persona stimata e comunque benestante, fece ad una collega. «Quando arrivò la prima condanna per me fu una doccia fredda – racconta Emilia Salomone – Io sono stata sempre stata serena perché certa della mia innocenza, ma quella condanna fu un incubo. Fui allontanata dal servizio per tre anni, e la gente mi guardava e mi considerava una ladra». Poi due anni più tardi il ribaltamento del verdetto e l’assoluzione, diventata definitiva. «Avrei potuto aderire alla prescrizione, ma rifiutai. Volevo essere processato, volevo che la verità venisse fuori e quando sono stata assolta, ho fatto una grande festa», ricorda la donna. Sembrava che l’incubo fosse finito. E invece nell’aprile del 2017 la condanna della Corte dei Conti, le cui valutazioni viaggiano sempre su binari diversi da quelli della magistratura penale. A rendere, inoltre, possibile alla magistratura contabile di distaccarsi dalla valutazione della Corte d’Appello penale di Roma è anche un aspetto puramente tecnico: Emilia Salomone non è stata assolta «per non aver commesso il fatto» bensì «perché il fatto non costituisce reato». Proprio questa formula ha lasciato aperta la strada ad una rilettura dei fatti. E i nuovi fatti, visti dai giudici contabili, vogliono la Salomone colpevole di non aver evitato il danno allo Stato. Due processi e due verdetti. Nel mezzo la vita di una donna che oggi si vede condannata a pagare danni che, giura lei, «non ho mai contribuito ad arrecare».

—>>> Leggi anche: 

Acque reflue, maxi-multa all’Italia Sicilia, Calabria e Puglia: il triste elenco delle località balneari non a norma

domenica, 22 Aprile 2018 - 14:00
© RIPRODUZIONE RISERVATA