L’estorsione-truffa, così i Lo Russo usarono i D’Ari come un bancomat L’inchiesta sui medici della Napoli bene

Procura di Napoli (foto Kontrolab)
di Manuela Galletta

E’ una storia quasi surreale quella dei fratelli Luigi e Antonio D’Ari, medici stimati di Napoli, con amici che contano nel mondo dell’avvocatura, dei salotti dei professionisti. E’ la storia di due ‘camici bianchi’ che puntano al salto di qualità dell’imprenditoria, che rilevano temporaneamente tre eccellenti ristoranti degli Iorio – per fare loro un favore, dice la procura – e si ritrovano di punto in bianco a offrirsi ai flash delle macchine fotografiche con accanto i calciatori, anche del Napoli, che quei locali li hanno sempre frequentati. Ma è anche la storia di due sprovveduti. Sprovveduti nell’amministrare le finanze dei locali e soprattuto nel trattare coi camorristi che immancabilmente bussano alla loro porta. Sì, perché Luigi d’Ari un bel giorno si ritrova quelli del clan Lo Russo quasi fin dentro casa. O meglio, lo raggiungono in clinica e gli dicono che ‘Carlucciello’, ossia Carlo Lo Russo, gli vuole parlare. Gli vengono chiesti soldi. Un’estorsione. Ma lui non lo capirà. Ché i Lo Russo, sfruttandone l’ingenuità e forse anche facendo leva sul rapporto che univa D’Ari a Domenico Mollica (cognato di Carlo Lo Russo), gli presentano la questione così: Marco Iorio, l’imprenditore dal quale tu hai rilevato i ristoranti, ci deve i soldi che Salvatore Lo Russo (poi pentito) aveva investito nelle sue attività, e dunque adesso tocca a te onorare il suo debito avendone tu ereditato le attività. Luigi D’Ari abbocca all’amo e inizia a pagare: dovrà onorare rate per complessivi 200mila euro. In realtà era un’estorsione bella e buona. Ché Marco Iorio non aveva alcun debito con Lo Russo, e lo conferma pure il neo pentito Mario Torre, il quale specifica che a Luigi D’Ari venne fatta una ‘mattonella’: «Gli facemmo credere che Iorio aveva un debito». La storia era verosimile per via delle accuse (poi cadute) che la Dda di Napoli aveva in precedenza mosso a Iorio, ossia aver reinvestito nei suoli locali un milione e mezzo di Salvatore Lo Russo. Così D’Ari si ritrovò a pagare un ‘mensile’ al clan, una parte del quale finiva a Domenico Mollica e la restante alla moglie di Mariano Torre, il quale – sostiene lui – aveva consegnato ai D’Ari 100mila euro dei suoi per ripulirli nei locali. Per dirla con le parole di Adriana Lo Russo, moglie di Mollica e sorella di Carlo Lo Russo, il clan si era assicurata la «pensione a vita». Inutile dire che scoppiò il putiferio quando D’Ari manifestò la volontà di vendere il solo ristorante degli Iorio che era rimasto nelle sue mani. Pacchia finita, con tanto di disappunto di Mimmo Mollica, che giorno dopo giorno provava a spingere D’Ari a spillare sempre più soldi. E lo facevano rendendolo partecipe di situazioni che – a sentire il pentito Carlo Lo Russo – non si sono mai verificate. In una conversazione intercettata, Mollica spiegava a D’Ari di essere pressato dal cognato Carlo Lo Russo che all’epoca era già pentito: «Questo adesso uno è pentito… omissis… Dal lato mio mi ha detto “se non mi dai i soldi, se non mi mandi i soldi ti mando in galera”… io sto pagando proprio un’estorsione per il fatto di Gigi e lui sa tutto. Io dal lato mio, questa mappina mi ha mandato un’imbasciata, Ha detto come non arrivano 2500 al mese, 2500 a … e 2500 a me io ti mando dentro. Cioè io sto pagando un ricatto…». A dire di Carlo Lo Russo, che subito venne compulsato sul punto dalla Dda  di Napoli preoccupata del fatto che il boss pentito stesse raccontando solo verità parziali, Mimmo Mollica «è un millantatore. Non ho mandato nessuna ambasciata a Mimmo di garantire 2500 euro al mese». Per Lo Russo era verosimile che Mollica si stesse muovendo per incassare più soldi da D’Ari e poi darne poco a Mariano Torre, con l’obiettivo di tenere il resto per sé. I contorni della doppia truffa, a D’Ari e pure al resto del clan, ci sono tutti.

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venerdì, 18 Maggio 2018 - 19:22
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