Iva, legge elettorale e voto anticipato L’Italia piomba nel grande ‘macellum’

Luigi Di Maio (foto Kontrolab)
di Danio Gaeta

Le liti in campagna elettorale le ricordiamo tutti. Infantili, a tratti grottesche. «Io sono duro e puro». «No tu sei quello di rimborsopoli». «Tu non devi proprio parlare, hai distrutto la sinistra». «Voi siete impresentabili, avete rubato l’Italia intera». Se gli ‘appiccichi’ sono indimenticabili, i programmi dei partiti, onestamente, li ricordiamo un po’ meno. Sono rimasti lì a prendere polvere sulle scrivanie di validi professionisti pagati profumatemente per pensarli. C’era una costante, però. Un pensiero che è balenato nella testa degli attori coinvolti per tre mesi: tutti volevano vincere. E alcuni erano anche sicuri di riuscirci.
Ad urne chiuse e a consultazioni aperte, la costante di questa tornata elettorale sembra capovolta: si continua a litigare, sia chiaro, ma nessuno vuole più governare. Anche chi, a ragion dovuta, ha spiegato agli italiani di aver vinto le elezioni. Il balletto lo aveva aperto Luigi Di Maio. Impettito come un democristiano da prima Repubblica, aveva parlato dal palco di Pomigliano d’Arco:  «Il Movimento 5 Stelle è il primo partito, tocca a noi governare». Seguito a ruota da Matteo Salvini: «Il centrodestra è la prima coalizione, la Lega è il partito forte. Governiamo noi». Ma con chi? E allora, mentre il presidente della Repubblica Sergio Mattarella perde il sonno, i leader dei partiti si nascondono. Questa volta è meglio saltare un giro. E sì, perché con questi chiari di luna, con le scadenze che incombono e con decisioni da prendere che rischiano di essere impopolari è facile fare una brutta fine. In termini di popolarità, si intende. Allora in Italia cosa si fa? Un emerito niente. Si aspetta, qualcuno prima o poi interverrà.  Questa volta, però, il rischio è serio. A partire dal problema delle clausole di salvaguradia dell’Iva: la norma inserita nella legge di Bilancio che prevede l’aumento automatico di Iva e accise in caso di sforamento degli obiettivi su deficit e debito pubblico. La clausola nasce con l’intento di garantire gli standard decisi in sede comunitaria e il rischio di non rispettare i parametri è elevato. E che problema c’è, la soluzione arriva da Luigi Di Maio: una manovrina per scongiurare gli aumenti, tanto non c’è bisogno di aspettare il Governo. Il leader grillino, tuttavia, ieri è stato portato sulla terra dal ministro dell’Economia Padoan: «Non serve alcun fantomatico decreto estivo, basta la legge di bilancio di fine anno». Non fa una piega. Ma il Governo che dovrebbe approvarla non si fa. I leader dei partiti a cui dovrebbe spettare l’onere e l’onore del governo, mentre sottobanco cercano un accordo risolutore (sempre più lontano), sembrano voler allontanare le responsabiltà. E allora meglio andare a votare prima. La prospettiva del ritorno al voto ha comunque già innescato una serie di reazioni a catena all’interno dei partiti. Al panico dei neo eletti si contrappone la speranza di rivincita degli esclusi dalle liste elettorali e dei trombati del 4 marzo. A questo naturalmente si aggiungono i costi che lo Stato (ovvero i contribuenti, qualcuno lo deve pur ricordare) dovrebbe sostenere. I numeri sono allucinanti: si parla di circa 300 milioni di euro. Le spese sono dovute al numero dei seggi elettorali (61.552), e all’impegno di quattro ministeri, Interni, Economia, Giustizia ed Esteri per gli italiani che non risiedono in Italia. A questo vanno aggiunti gli straordinari delle forze dell’ordine, la stampa delle nuove schede elettorali e tanto altro ancora. Insomma un salasso. L’ipotesi del voto anticipato (a giugno o addirittura a luglio) a quanto pare non piace ai mercati. Dopo due mesi di calma piatta, la fiducia è finita: i mercati tornano in fibrillazione per l’incertezza politica in Italia. Il risultato è l’aumento dello spread e del rendimento dei Btp decennali e il tonfo della Borsa di Milano che contagia anche le altre piazze azionarie europee. Gli analisti puntano il dito contro lo stallo politico e il rischio di elezioni anticipate. E poi per andare a votare c’è bisogno di una legge elettorale. Altro grande, grandissimo dubbio italiano. Al momento la legge è il Rosatellum: un sistema misto che ha generato questo stato di ingovernabilità. Se si tornasse al voto entro luglio non ci sarebbe il tempo per cambiarlo. Ma c’è anche altro. Il professor Paolo Maddalena, giurista e magistrato, che ha ricoperto l’incarico di giudice Costituzionale, ha presentato ricorso in Corte Costituzionale contro il Rosatellum (Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, è il primo firmatario). L’udienza in Camera di Consiglio si terrà il prossimo 4 luglio e la “novità” del ricorso risiede nel fatto che, per la prima volta, il popolo (corpo elettorale) ricorre in via diretta alla Corte Costituzionale, senza il preliminare/pregiudiziale ricorso al Giudice di merito. Insomma in Italia si rischia il grande Macellum.

mercoledì, 9 Maggio 2018 - 14:16
© RIPRODUZIONE RISERVATA