Mafia, tra depistaggi, documenti e pentiti Quel buco nero a 26 anni dalle stragi L’affondo di Scarpinato: «Chi sa tace»

di Andrea Terracciano

Ci sono tante pagine rimaste incollate nel libro della storia italiana. Un capitolo consistente comincia con quattro cifre: 1992. E’ l’anno che cambia per sempre il modo di parlare di politica e di mafia nel nostro Paese. E’ un anno che di fatto non si è mai chiuso, a partire dalle aule di tribunale, soprattutto per le due stragi che da quel momento in poi non sono state mai più scisse: quelle che hanno portato via per sempre i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, oltre agli uomini della scorta. Allo scoccare dei 26 anni dall’attentato di via Capaci, il boss Matteo Messina Denaro (peraltro in contumacia) è ancora a giudizio con l’accusa di essere stato uno dei mandanti, mentre la Procura della Repubblica di Caltanissetta ha chiuso soltanto due mesi fa le indagini sui tre poliziotti accusati di aver depistato l’inchiesta sulla strage di via D’Amelio nella quale morì Paolo Borsellino. Depistaggio: una parola che ricorre ogni volta che si parla di un processo chiave nella storia d’Italia. Non ha timore a proferirla il Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, nel corso di un incontro per ricordare Giovanni Falcone e Paolo Borsellino alla vigilia del 26esimo anniversario della strage di Capaci: «La storia dei depistaggi non si ferma alle stragi neofasciste, ma arriva fino ai nostri giorni. E il processo Borsellino è una summa di tutti i depistaggi della storia italiana».  Accuse che poggiano su basi solide: «Documenti spariti, la famosa agenda rossa, che sparisce nella immediatezza di un fatto immane – dice Scarpinato – quando ancora tutti sono stravolti dell’esplosione, c’è qualcuno che lucidamente prende la borsa e pochi minuti dopo la rimette nell’auto in fiamme. E non si capisce perché, perché se prendi la borsa la dai ai magistrati come corpo di reato». Su via D’Amelio incombe, poi, l’ombra sinistra di un processo a carico di tre poliziotti accusati di aver depistato le indagini con falsi collaboratori e verità costruite a tavolino. Nelle mani degli investigatori c’è un’intercettazione tra il pentito Santino Di Matteo (padre del piccolo Giuseppe sciolto nell’acido) e la moglie, registrata poco dopo il sequestro del figlio: «Hai capito perché hanno sequestrato nostro figlio? Ricordati che abbiamo un altro figlio, non parlare mai degli infiltrati eella polizia nelle stragi».
«Ci sono tante persone che sanno e che continuano a tacere. Perché?». si chiede Scarpinato, dando voce a un sentimento che tocca ancora tanti magistrati alla ricerca di una verità definitiva sugli anni del sangue e del tritolo. E, animato da questo sentimento, tira fuori dei nomi, a cominciare dai Graviano («hanno ancora 50 anni e potrebbero rifarsi una vita, eppure stanno in silenzio»). L’anagrafe avanza e la ricerca della verità diventa una corsa contro il tempo con la consapevolezza che chi sapeva, in alcuni casi, è stato zittito dal piombo. «C’è una storia inquietante anche da questo punto di vista – ricorda ancora Roberto Scarpinato – Abbiamo avuto uno degli infiltrati, Luigi Ilarda, il primo che ci ha dato notizie preziose sull’artificiere della strage di Capaci, ci fece arrestare 15 capi importanti di Cosa nostra. Incontrò anche Provenzano per mesi, aveva anticipato che avrebbe rivelato degli scenari politici dietro le stragi. Ma è stato assassinato poco dopo. C’è una parte della storia che è segreta, ma purtroppo non è una novità».

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martedì, 22 Maggio 2018 - 20:18
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