Le fiamme dell’estate dello scorso anno hanno divorato gran parte del Parco Nazionale del Vesuvio. Il report dall’inferno, o meglio dal paradiso naturalistico trasformato in inferno, parla di «oltre il 50% della superficie forestale – pari a oltre 3.000 ettari di terreno – percorsa dal fuoco», e «di circa 500 ettari di pinete mature di pino domestico e marittimo andati distrutti». Dati che, diffusi dal dipartimento dell’Università di Agraria della Federico II di Napoli – e commissionati dall’Ente Parco – sottolineano anche il «notevole incremento dell’instabilità meccanica degli alberi vesuviani e la ridotta fruibilità di percorsi naturalistici e turistici». «Era necessario – ha detto il presidente Agostino Casillo – uno studio scientifico dettagliato per verificare gli impatti del fuoco sulle diverse aree del parco e i relativi habitat naturali. Grazie alla convenzione, siglata tra Ente e Università, finanziata con risorse proprie, abbiamo investito i massimi esperti in materia che oggi hanno presentato i primi risultati dello studio». Già dall’autunno scorso, a distanza di pochi mesi dai roghi, molti ricercatori del dipartimento di Scienze Agrarie erano stati coinvolti nel progetto «volto a ridurre i rischi connessi all’uso delle aree e dei percorsi turistici e al ripristino dei servizi eco sistemici, con un approccio interdisciplinare». «I dati diffusi dal Dipartimento – ha continuato Casillo – serviranno all’Ente Parco per fornire ai proprietari dei fondi danneggiati linee guida da seguire per gli interventi post-incendio».
Gli obiettivi per il restauro ambientale
Secondo Agostino Casillo, dunque, a breve si potrà finalmente portare avanti il progetto di restauro del patrimonio ambientale perduto. Non prima però di aver portato a termini altri obiettivi importanti. Obiettivi di uno studio – definito – «quali-quantitativo multi-criteriale», come ad esempio, «l’analisi della gravità degli incendi attraverso immagini satellitari e dati raccolti sul campo»; o quella «del rischio idrologico post-incendio», con un «aggiornamento anche degli scenari di rischio in seguito al cambiamento della struttura e del carico del combustibile post-incendio». Solo così, per il presidente dell’Ente, si potrà dare avvio alla «pianificazione della gestione forestale, per facilitare il recupero di specie arboree autoctone», e a quella «di rimboschimento, mediante materiale di propagazione prodotto nei vivai locali».
Lo studio condotto dai ricercatori di Agraria
L’approccio – definito dagli studiosi di Agraria – «quali-quantitativo multi-criteriale» è stato ritenuto il metodo più adatto per portare a termine «un’esplorazione più approfondita e completa delle complesse questioni relative agli impatti degli incendi sui servizi ecosistemici». Lo studio si avvale innanzitutto di «un’analisi multi-criteriale», in ambiente Gis (sistema informativo geografico), che definisce e specifica quali sono le aree a priorità di intervento, tenendo conto anche dell’idoneità turistica del luogo, e dei fattori di biodiversità e di produzione primaria. Da queste aree partiranno poi le attività necessarie «per la riduzione dei rischi e, almeno in parte, per il recupero di biomassa bruciata per compensare il danno economico a carico dei privati». Inoltre sono state anche definite le «linee guida che garantiscano una successione post-incendio con specie autoctone, resistenti e resilienti al fuoco» e «linee guida sugli interventi di ingegneria naturalistica finalizzati alla riduzione del rischio idrogeologico».
Per spegnere gli incendi usata acqua contaminata
Caso ha voluto che i dati e gli obiettivi del report siano stati diffusi a poche ore dalle misure cautelari eseguite a carico di 5 persone, indagate per i reati di inquinamento e tentato disastro ambientale. In concorso tra loro i 5 – gestori del sito di ricomposizione ambientale di Comiziano e della Edilcava Santa Maria La Bruna -, con un funzionario del Genio civile della Campania, avrebbero compromesso l’acqua di falda e del suolo del sito di Comiziano. La stessa acqua utilizzata per spegnere gli incendi che hanno interessato il parco Nazionale. Dall’analisi dei campioni è emersa infatti la presenza di ingenti quantitativi di cromo, idrocarburi e amianto. Circostanza che per gli inquirenti potrebbe aver provocato «la contaminazione anche di matrici ambientali in zone protette, sottoposte a vincolo paesaggistico».
venerdì, 22 Giugno 2018 - 14:10
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