Ponte Morandi, lo zio dei boss D’Amico non risponde al gip: la sua ditta esclusa dai lavori per sospetti contatti coi clan

Genova
Il ponte Morandi crollato a Genova sull'Autostrada A10
di Laura Nazzari

Si sono limitati a rendere una dichiarazione spontanea per protestare la propria innocenza, poi però hanno deciso di non rispondere alle domande del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli che aveva la delega, dai colleghi di Genova, a sovrintendere (per rogatoria) l’interrogatorio di garanzia.

Nella giornata di ieri il 65enne Ferdinando Varlese, zio dei boss D’Amico di San Giovanni a Teduccio, e la parente Consiglia Marigliano hanno affrontato la prima tappa dell’iter giudiziario scaturito dall’arresto (carcere per Varlese e domiciliari per la donna) per intestazione fittizia di beni con l’aggravante della matrice camorristica per avere agito al fine di agevolare la cosca di appartenenza, una contestazione legata a doppio filo alla ricostruzione del Ponte Morandi a Genova il cui crollo, il 14 agosto dello scorso anno, provocò la morte di 43 persone. La decisione di non rispondere alle domande è scaturita dal fatto che il gip di Napoli non è quello che ha emesso il provvedimento restrittivo e dunque non è a conoscenza della genesi dell’inchiesta. Tuttavia, come ribadito dall’avvocato Raffaele Chiummariello che difende entrambi gli indagati, Varlese – che da tempo vive a Rapallo – e Marigliano si riservano di potere fornire ampi chiarimenti all’autorità giudiziaria competente.

Varlese e Marigliano sono stati arrestati martedì 18 giugno in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare (carcere per Varlese e domiciliari per Marigliano) a firma del gip Paola Faggioni del Tribunale di Genova. La procura li accusa di intestazione fittizia di beni con tanto di aggravante della matrice camorristica per avere agito al fine di agevolare il clan D’Amico. Li accusa cioè di pesanti anomalie nella gestione dell’impresa Tecnodem, di cui risulta amministratore unico Consiglia Marigliano, che si era aggiudicata un subappalto nei lavori per la ricostruzione del Ponte di Genova. Proprio l’ipotizzata vicinanza alla cosca, considerata il braccio armato dei Mazzarella, ha spinto fuori la Tecnodem dalla ricostruzione del Ponte Morandi lo scorso maggio: la ditta, che si era aggiudicata un subappalto da 100mila euro, ha ricevuto l’inerdittiva antimafia che è adesso oggetto di un contenzioso dinanzi al Tar a seguito di ricorso presentato dalla responsabile dell’azienda, Concetta Marigliano. L’azienda, che lavora nel campo da diversi anni e ha sempre avuto pareri favorevoli sul fronte delle certificazioni antimafia, rivendica la correttezza del proprio operato e respinge l’accostamento con la camorra.

Ma cosa contesta nello specifico la procura di Genova ai due indagati? Anzitutto i magistrati ritengono che l’amministratore di fatto della società sia al 65enne Ferdinando Varlese, che non figura nella compagine societaria ma solo come dipendente, e che Concetta Marigliano sia una sua prestanome, un «cosciente schermo» per dirla con le parole degli inquirenti. Con questo assetto definito ‘anomalo’, Varlese ha partecipato anche alla dismissione della centrale nucleare di Caorso, e con questo assetto Varlese – dicono gli inquirenti – era pronto ad aprire una nuova azienda per potersi reinserire nel mercato dal quale era stato escluso con l’interdittiva antimafia.

Quanto all’aggravante della matrice camorristica, l’ipotesi di reato si aggancia a due elementi: Varlese è legato da forti vincoli di parentela ai boss D’Amico, di cui è zio, e un suo parente, Luigi Varlese, è stato condannato in primo grado a 13 anni e 6 mesi nell’ambito di un processo contro i D’Amico (è in corso il processo in Appello). Il secondo elemento su cui poggia la contestazione è, invece, un vecchio problema con la giustizia di Varlese risalente a 30 anni fa: nel 1989 Varlese è stato condannato dalla Corte d’Appello di Napoli per associazione a delinquere nell’ambito di un processo che che vedeva tra gli imputati anche soggetti affiliati al clan Misso-Mazzarella-Sarno guidato da Michele Zaza e Ciro Mazzarella. Un precedente lontanissimo nel tempo che è divenuto perno prima dell’interdittiva antimafia e poi dell’inchiesta sfociata ieri nei due arresti disposti dal giudice per le indagini preliminari Paola Faggioni del Tribunale di Genova. Agli atti non ci sono altri elementi recenti su eventuali e attuali legami di natura illecita coi D’Amico.

Le indagini hanno invece escluso condizionamenti da parte della Tecnodem nei confronti della ditta appaltatrice Omini (capofila ati demolitori del Morandi) ma, come precisato dal procuratore Cozzi in occasione della conferenza stampa tenutasi martedì, «l’esito dell’indagine è stato negativo e per questo la Procura di Genova richiede l’archiviazione di questo tipo di indagine». Controlli certosini, dunque, allo scopo di tenere al riparo la ricostruzione del Ponte di Genova da ‘appetiti’ di aziende non in regola o peggio ancora legate alla criminalità organizzata. «Intorno alla demolizione del ponte Morandi – ha osservato (sempre in conferenza stampa) il colonnello della Dia di Genova Mario Mettifogo – ballano cifre consistenti e quindi è evidente che ci sia un interesse da parte della criminalità organizzata. Ma si tratta di un cantiere così pubblicizzato e controllato che non dovrebbero nemmeno provarci». Il messaggio che la procura di Genova ha inteso dare è comunque chiaro: sul Ponte di Genova sarà impossibile lucrare. «Questa attività completa e conferma il quadro dell’attenzione degli organi deputati, sia in fase di prevenzione che di repressione, nei confronti di soggetti legati alla criminalità organizzata. Si tratta di un cantiere ipercontrollato. I controlli vengono fatti durante e dopo l’assegnazione dei lavori, in una fase successiva dunque, e il meccanismo funziona benissimo», rivendica il procuratore capo di Genova, Francesco Cozzi. Lanciato il messaggio, la procura di Genova si spoglia però dell’inchiesta e manda gli atti a Napoli per competenza territoriale.

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venerdì, 21 Giugno 2019 - 14:07
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