Non c’era alcun muro tra i detenuti del clan e l’esterno. Non servivano le sbarre ad arginare i contatti con il mondo ‘di fuori’, compresi quelli con la cosca di appartenenza, perché anche dopo essere finiti in carcere riuscivano a comunicare grazie ai telefoni cellulari che utilizzavano nonostante fossero ristretti in una casa di detenzione.
L’incredibile scenario emerge dalla lettura dell’ordinanza di 892 pagine con cui sono stati disposti 32 arresti tra presunti affiliati al clan ‘abbasc Miano’, considerata cellula risorta dalle ceneri dei Lo Russo, che aveva assunto il controllo della zona tra Miano, Marianella, Piscinola e Don Guanella. Gli affiliati, scrive il giudice per le indagini preliminari, mantenevano «una rete di comunicazione con i detenuti consentendo loro di essere costantemente informati oltre che di impartire direttive all’esterno». Questo aspetto dell’inchiesta è emerso dalle indagini della direzione investigativa antimafia e dalle intercettazioni dei carabinieri Vomero.
Ma come è possibile che i detenuti del clan Lo Russo («quasi la maggioranza») potessero disporre di cellulari non solo nelle carceri di Poggioreale o Secondigliano, ma anche fuori regione, per esempio a Terni, dove si trovava uno degli arrestati, Salvatore Silvestri? Sono i familiari, emerge dall’inchiesta, i principali e più affidabili ‘fattorini’ che riescono ad introdurre telefonini ed anche il materiale che serve per farli funzionare come le schede telefoniche o il caricabatterie. In alcuni casi si tratta di microtelefoni senza collegamento ad Internet, ma non mancano casi in cui tra le mura degli istituti di pena si riesca a introdurre Iphone con tanto di collegamento alla Rete ed app di messaggistica, videochiamate e social network. Silvestri, stando alle indagini, ne aveva addirittura due a disposizione come Pasquale Sibillo. Telefoni che i due usano come ‘citofoni’ per comunicare solo con le rispettive compagne attraverso numeri dedicati e riservati alle sole comunicazioni in carcere, un sistema chiuso che aveva lo scopo di evitare le penetrazioni della polizia giudiziaria.
Non mancano dettagli paradossali. In una circostanza, ad esempio, i carabinieri registrano la conversazione tra Silvestri e la compagna Maria Trambarulo, nipote del più noto Gennaro che gli inquirenti considerano un elemento di spicco dell’Alleanza di Secondigliano; la donna sta facendo shopping e spiega all’uomo gli abiti che intende acquistare. E poi parlano in tutta tranquillità, non solo delle questioni familiari ma anche degli affari del sodalizio. Del resto Silvestri viene costantemente aggiornato, grazie al cellulare, sulle cose della cosca, così da poterla gestire anche da dietro le sbarre. Silvestri – già condannato per il suo ruolo nel clan ‘dei capitoni’ e per associazione finalizzato al traffico di droga, di recente raggiunto da due ordinanze di custodia cautelare per omicidio, parla- attraverso il ‘citofono’ della compagna – con gli affiliati liberi ma anche con altri detenuti che dispongono di telefonini. Un dialogo ininterrotto, fatto di richieste (per esempio quella «ai giovani» di mantenere la sua famiglia mentre si trova in cella, di recuperare crediti) e disposizioni sui business della cosca.
Anello di congiunzione essenziale per queste comunicazioni è Maria Trambarulo. E questo emerge dalle intercettazioni captate dagli investigatori. «Mongoloide dammi il numero» scrive Silvestri alla donna per chiedere il numero dell’utenza dedicata, e lei poco dopo gli invia un sms. In quel momento lui è in carcere a Terni e ha a disposizione un cellulare piccolo e senza connessione. La stessa compagna poi si compiace con un’amica dell’avvenuta consegna del telefono: «Tutto a posto…ho controllato…tutto a posto…Adesso una mia amica mi ha mandato il messaggio ‘Mandami il numero’ sopra il telefono mio…Hai capito?».
Silvestri non era l’unico tra i detenuti a riuscire a disporre fino a due cellulari in carcere. Gli inquirenti certificano la stessa condotta a carico di Pasquale Sibillo e Umberto Russo; quest’ultimo aveva un Samsung S4 mini con collegamento internet con app di messaggistica che sfuggono alle intercettazioni. La quasi maggioranza dei detenuti del clan, mettono nero su bianco gli inquirenti, aveva a disposizione microcellulari o smartphone di ultima generazione. Una prassi comune anche ad altre organizzazioni criminali che testimonia l’incredibile facilità degli affiliati di ‘bucare’ la rete di controlli e sorveglianza degli istituti carcerari. In un solo caso, moglie e figlia di un detenuto si ribellano alla richiesta di un cellulare ma lui riesce comunque ad ottenerlo e chiama subito la consorte: «Tengo il telefono» e lei: «E noi passeremo il guaio a fare le ricariche?». Più che dalle conseguenze dell’avere un telefonino in carcere, però, la donna sembra preoccupata per i costi di questa apparentemente infallibile linea di comunicazione.
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lunedì, 10 Febbraio 2020 - 07:29
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