Un agguato di camorra consumatosi davanti ad una cornetteria sotto gli occhi di un bambino di 12 anni, che vide cadere «come un sacco di patate» l’uomo che gli stava seduto accanto. Era la sera del 6 novembre del 2016 quando ai Colli Aminei, a Napoli, Antonio Bottone rimase ucciso. Il killer gli sparò all’altezza della testa prima di scappare via.
Sei anni dopo un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, notificata dai carabinieri, accusa il 35enne Enrico La Salvia, ritenuto legato al clan Sequino della Sanità, di essere la persona che quella sera premette il grilletto e ricostruisce la dinamica e il movente di un raid in realtà pianificato per uccidere un’altra persona, Daniele Pandolfi, che invece riuscì a scappare. L’indagato – che è già detenuto in prigione dal febbraio 2019 per effetto di un’inchiesta sui Sequino – è accusato di omicidio e tentato omicidio, con l’aggravante della premeditazione, dell’uso illegale di una pistola e della matrice camorristica. Contro di lui ci sono le dichiarazioni di due collaboratori di giustizia, il ‘sopravvissuto’ Daniele Pandolfi, e Daniele Baselice.
Nel mirino dei killer – si ricostruisce nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere firmata dal giudice per le indagini preliminari Giuseppe Sepe della 26esima sezione penale del Tribunale – c’era Daniele Pandolfi, in quanto esponente del clan Vastarella, cosca con la quale i Sequino nel 2016 erano entrati in rotta di collisione per la gestione degli affari illeciti alla Sanità. Poche settimane prima dell’agguato, i Vastarella avevano ferito in un agguato Gianni Sequino, nipote dei boss Salvatore e Nicola Sequino ma estraneo ad ogni logica criminale. Di qui la decisione di vendicarsi per il torto subito. Solo che quella sera del 6 novembre del 2016 non rimase ucciso il bersaglio designato, ma Antonio Bottone che non era neppure un affiliato. Bottone era semplicemente un amico di Pandolfi e pagò con la vita questo suo legame.
Il primo ad accusare La Salvia è stato proprio Pandolfi all’indomani del suo pentimento, datato 18 aprile 2018: «Ha ucciso Antonio davanti a un bimbo di 12 anni che stava mangiando un panino». Tuttavia il percorso dichiarativo del collaboratore non è stato lineare sin da subito: in una prima dichiarazione Pandolfi ha fatto il nome e cognome di La Salvia ma anche quello di un’altra persona, sostenendo che «li ho visti e li ho riconosciuti». Salvo poi specificare che le due persone avevano i volti travisati e precisando, sulla posizione di La Salvia, «che si vedevano gli occhi ed una parte del naso, ma non ho difficoltà a riconoscerlo perché lo conosco da quando eravamo bambini essendo vicini di casa». Successivamente Pandolfi ha fatto dietrofront sul nome dell’altra persona chiamata in causa, specificando di non averla vista ma di avere appreso del suo coinvolgimento da una terza persona. Infine Pandolfi ha fornito una spiegazione al perché – quando fu ricoverato in ospedale in seguito all’agguato – disse ai parenti che il responsabile del raid era un altro (era intercettato), smentendo la sostanza di quell’accusa. Un passo indietro che per il gip non inficia la credibilità di Pandolfi ma anzi «rafforza e non indebolisce la genuinità delle dichiarazioni relative a La Salvia nei cui confronti il Pandolfi non arretra e non modifica mai nulla, mantenendo ferme, nel tempo, le dichiarazioni accusatorie e fornendo tutte le precisazioni del caso».
Quanto a Baselice, egli invece ha riferito di avere raccolto la ‘confidenza’ di La Salvia in persona – del quale era amico – in un’occasione molto particolare: La Salvia – ha ricordato il pentito – era appostato per un agguato, quindi nell’attesa che il bersaglio si materializzasse spiegò al compagno «di avere ucciso», riferendogli l’accaduto e dicendogli che Bottone «era caduto come un sacco di patate». Poi prima che potesse aggiungere dell’altro, il bersaglio atteso si materializzò: La Salvia sparò cinque-sei colpi di pistola e i due corsero via.
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martedì, 18 Febbraio 2020 - 19:35
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