I figli dei capimafia ‘storici’ avevano ereditato lo scettro del comando dai padri e tenevano le redini della cosca che, esaurita la forza dissuasiva nei confronti dei commercianti e degli imprenditori oggetto di minacce di estorsione, sempre più pronti a denunciare il pizzo, si erano orientati su altri business tra cui quello ‘immortale’ della droga.
Questo, in sintesi, quanto emerge dall’operazione ‘Dinastia’ che questa mattina ha portato a 59 arresti da parte dei carabinieri del Ros nella zona di Messina ed in altre località italiane. L’operazione va a colpire la cosca mafiosa di Barcellona Pozzo di Gotto, legata a ‘Cosa nostra’ palermitana, e nasce dalle indagini coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia. Le accuse nei confronti degli indagati sono, a vario titolo, di associazione mafiosa, associazione finalizzata al traffico di droga, spaccio, estorsione, detenzione e porto illegale di armi, violenza e minaccia. Per tutti i reati sussiste l’aggravante mafiosa.
Stando a quanto emerso, al centro del business della mafia barcellonese, che intratterrebbe rapporti ‘commerciali’ anche con la ‘ndrangheta calabrese per il rifornimento di droga, c’è la ‘famiglia’ mafiosa di Barcellona Pozzo di Gotto i cui affiliati e gregari sono questa mattina finiti agli arresti. Il clan negli anni aveva consolidato la sua posizione soprattutto grazie al traffico di droga, sottolineano gli inquirenti: un investimento dovuto soprattutto al ‘declino’ progressivo di quello che da sempre era stato il ‘core business’ della cosca, ovvero le estorsioni e la richiesta di pizzo. Estorsioni che non risparmiavano settore economico; vittime delle mire mafiose erano commercianti, imprenditori, agenzie di pompe funebri ma in alcuni casi documentati la mafia ha messo gli occhi persino sulle vincite alle slot machines come nel caso di due ragazzi che tentando la sorte alle macchinette mangia soldi erano riusciti a vincere 500mila euro su cui la cosca chiese, ed ottenne con le minacce, una tangente di cinquemila euro.
Fondamentali per ricostruire questo episodio ed altri i collaboratori di giustizia come Carmelo D’Amico, Aurelio Micale e Nunziato Siracusa. I tre pentiti raccontano che la vincita era stata realizzata in un centro Snai di Barcellona e aveva subito attirato l’attenzione del clan che mise poi in atto minacce e richieste estorsive. Ma il racket non bastava alla ‘famiglia’ del Messinese che quindi decide di investire nella droga, servendosi di fornitori della ‘ndrangheta. Il ritorno allo spaccio, più remunerativo, era giustificato dal fatto che aumentavano le denunce per estorsione da parte di commercianti ed imprenditori, e diventava sempre più rischioso chiedere il pizzo ed economicamente meno vantaggioso. Gli incassi del racket non bastano, le vittime denunciano e quindi si torna al vecchio business. «Con le estorsioni non si guadagnava – dice un collaboratore di giustizia – le persone denunciavano e volevano fare con la droga. C’era la crisi e le persone soldi non ne avevano e si è parlato di prendere la droga. La prendeva uno e valeva per tutti, il ricavato andava a tutti».
In questo rinnovato modus operandi della cosca, si inseriscono anche nuovi assetti all’interno della ‘famiglia’. Gli storici capiclan sono agli arresti, così le redini passano ai figli che gestiscono, al posto dei padri detenuti, il traffico di cocaina, hashish e marijuana non solo a Messina ma anche nelle isole Eolie, anche rifornendo ulteriori gruppi criminali satelliti, attivi nello spaccio minore.
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venerdì, 28 Febbraio 2020 - 08:09
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