Camorra, il boss Pesacane e il progetto di ‘riprendersi’ Boscoreale: «Servono guerrieri, ma qua sono tutti ricottari»

Carabinieri
di Manuela Galletta

Radunare «guerrieri» in grado di «litigare in mezzo alla strada» e all’occorrenza «dare uno schiaffo ad un altro». «Organizzare di nuovo la squadra», insomma, perché bisognava «dare fastidio per Bosco». Bisognava riaffermare la legge del clan Pesacane in un comune dove la cosca non esercitava più pressione a seguito della lunga carcerazione del boss Giuseppe Pesacane e dei suoi uomini di fiducia, dando così il là a un progetto espansionistico dei Gallo-Limelli-Vangone.

E’ il dicembre del 2019 quando gli inquirenti colgono i primi segnali del tentativo di riorganizzazione del clan Pesacane. La lunga carcerazione patita dal ras Giuseppe Pesacane non aveva sopito la sua spinta a delinquere e così, quando nel 2018 le porte del carcere si sono riaperte in direzione dell’uscita, Pesacane si è mosso in moto per ricostruire la sua ‘squadra’. Una squadra di fedelissimi: dentro Giuseppe Ranieri, suo autista e braccio destro che ha condiviso le vecchie sfortune giudiziarie e pure il destino della galera; dentro anche il fratello Umberto e Santolo Martire. Poche persone, per cominciare. Per avviare quel progetto di oppressione che oltre dieci anni fa spinse il titolare di una concessionaria di auto a ribellarsi e a diventare testimone di giustizia. Le prime vittime sono state due costruttori edili, uno dei quali impegnati in lavori appaltati dalla Gori proprio nella strada dove Giuseppe Pesacane aveva casa. L’altro imprenditore, invece, era impegnato nei lavori di ristrutturazione di una scuola. I Pesacane hanno provato a pretendere da entrambi il pagamento di un’estorsione ma l’immediato avvio delle indagini e la contestuale ‘captazione’ dei discorsi di boss e gregari hanno consentito ai carabinieri e alla procura di confezionare in tempi record un atto d’accusa che ha soffocato quasi sul nascere il sogno di Giuseppe Pesacane di riportare in auge il suo clan.

In 43 pagine di ordinanza di custodia cautelare in carcere eseguita nella giornata di ieri, è ripercorsa la breve attività di questa mini-cosca, che non era in grado di contare sull’apporto di una vera e propria ala militare. Basti pensare che le minacce estorsive dalle quali è scaturita l’indagine sono state firmate dal boss in persona, da suo fratello e dal suo braccio destro. Una circostanza che viene stigmatizzata dallo stesso Umberto Pesacane, che non esita – quando il fratello non può sentirlo – a contestare le decisioni assunte dal parente. «Ci ha fatto fare una scemità… – si lamenta Pesacane – Tieni i compagni, dici che tieni i compagni.. chiama ad un no… mandami a un paio di loro.. così si fanno i servizi.. no che andiamo noi a picchiare la gente che ci conosce… noi li picchiamo e quelli ci vanno a denunciare…». Lo sfogo si ancora alle minacce rivolte al titolare dell’impresa che stava eseguendo i lavori sotto casa del boss. Per esercitare pressioni sull’uomo, Umberto Pesacane e Giuseppe Ranieri si sono mostrati in prima persona armati di un bastone. Un’arma che, lamentano, non incute timore e che consente alla vittima di scappare, cosa avvenuta nel caso di specie. Ranieri, invece, aveva proposto un sequestro di persona: aveva proposto di prelevare l’imprenditore e di portarlo in un luogo appartato e qui avanzare le proprie pretese. Ma Giuseppe Pesacane aveva scartato questa modalità di azione, preferendo quella del ricorso al bastone che è stata poi criticata. Umberto Pesacane temeva, infatti, che la vittima avrebbe anche potuto denunciarli, facendoli arrestare. «Abbiamo picchiato a uno, mo se ci va a denunciare ci fa arrestare a tutti e tre», dice preoccupato alla moglie.

Non sbagliava. Perché subito dopo avere subito l’aggressione ed essere riuscito a scappare, il costruttore edile si rivolge alle forze dell’ordine e, benché inizialmente non racconti tutta la verità, fornisce le indicazioni necessarie a fare accendere i riflettori sui Pesacane. Il contenuto esplicito delle intercettazioni hanno fatto il resto. E sempre attraverso le intercettazioni gli inquirenti hanno contestato il secondo episodio di tentata estorsione. In questa circostanza però il boss Giuseppe Pesacane non viene ascoltato, vengono ascoltati suo fratello e Santolo Martire che ragionano sulla possibile di dare «4-5 schiaffoni» alla vittima «prima di parlarci». E, tuttavia per il pubblico ministero titolare dell’inchiesta ma anche per il gip che ha firmato la misura cautelare «può ritenersi comprovato che Giuseppe Pesacane, nella sua posizione di vertice del sodalizio, ed in particolare del gruppo di azione dedito alle attività estorsive nel comune di Boscoreale, avesse piena contezza dell’operato dei suoi collaboratori». Pesacane, è il ragionamento degli inquirenti, aveva ripreso le attività criminali e nessuno si muoveva senza il suo consenso. L’unica difficoltà che sembrava incontrare era rappresentata dalle reali capacità dei suoi uomini.

In uno sfogo con un affiliato lamentava infatti l’inadeguatezza della sua squadra, ad eccezione di Giuseppe Ranieri. Ragione per la quale s’era deciso a scendere in campo in prima persona. «Hai capito, se una cosa non la faccio io non la fa nessuno. Hai capito che quasi sono tutti ‘ricottari’? Aspettano lo stipendio, hai capito che nessuno ha il coraggio di dare uno schiaffo ad un altro?», diceva. Parole che fanno presupporre un’indagine più ampia sul clan Pesacane. Un’indagine che vada oltre le due contestazioni di tentata estorsione che hanno fatto scattare gli arresti. Proprio come accade quasi venti anni fa: i pm della Dda, all’epoca, si mossero dopo la denuncia di un imprenditore e da lì confezionare accuse di camorra e traffico di droga che hanno tenuto in carcere il boss Pesacane sino a un paio di anni fa.

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mercoledì, 22 Aprile 2020 - 17:51
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