App Immuni, l’avvocato Lisi (Anorc): «Senza tamponi, è un rischio inutile. Se non c’è trasparenza, non la scaricherò»

avvocato andrea lisi
L'avvocato Andrea Lisi con il ministro Paola Pisano
di Roberta Miele

Trasparenza: nelle scelte, nelle modalità, nelle motivazioni. La chiave di volta per dirimere la questione ‘Immuni’, l’app che dal prossimo mese mapperà il contagio da Covid-19. «Ci spieghino se è utile, quanto protegge i nostri dati e per quanto tempo saremo tracciati», perché «dobbiamo essere certi che la compressione di un diritto fondamentale della persona – questo è la tutela della riservatezza – comporti un beneficio nella lotta al virus. Mi sembra ci sia un po’ di pressappochismo». L’avvocato Andrea Lisi, presidente di Anorc (Associazione Nazionale Operatori e Responsabili della Custodia di contenuti digitali) non è contrario a priori al tracciamento, ma al Governo chiede chiarezza. Chiarezza disattesa anche durante la presentazione del Dpcm che a partire dal 4 maggio disciplinerà la fase 2 del contenimento, di cui ‘Immuni’ dovrebbe essere una colonna portante.

L’App ‘Immuni’, per quello che promette di fare, è utile?
«Vorremmo saperlo un po’ tutti. Gli esperti dicono che se l’utilizzo dell’app, che dovrebbe arrivare a cifre straordinarie, addirittura al 65-70% della popolazione, non verrà accompagnato dai tamponi a tappeto, rischiamo che sia abbastanza inutile. Se non posso verificare il mio stato di salute, non posso condividerlo. Il Governo su questo è stato molto evasivo».

In molti pongono un problema di privacy, contestano il non volere essere ‘tracciati’. Eppure regalano dati quando scaricano App, notizie sulla posizione a Facebook, Google ci ‘invia’ le pubblicità finanche di negozi dove siamo stati pochi minuti prima. La privacy è un falso problema?
«Abbiamo tanto criticato Google e Facebook per l’utilizzo dei dati. Esperti e garanti hanno spinto i colossi ad avere quantomeno una maggiore attenzione della tutela della privacy, il GDPR ha fatto sì che le società di Big Data rendessero più evidenti le politiche di protezione dei dati permettendo anche a noi maggiore consapevolezza. Apple, addirittura, ha fatto della tutela della privacy una campagna di marketing. Il Governo dovrebbe essere ancora più trasparente dando l’esempio, senza spaventarci o innervosirsi se gli esperti chiedono chiarezza. Poi possiamo pensare che siamo in una fase di vigilanza globale e non debba importarcene più nulla, ma è pericolosissimo. Ci stiamo avvicinando allo scenario della cosiddetta dittatura digitale. Del resto Joseph Goebbels diceva che se non hai niente da nascondere, non hai nulla da temere».

Quali i rischi per la privacy, soprattutto in riferimento al sistema centralizzato di cui si è parlato all’inizio e poi smentito?
«I dati fanno più gola se sono centralizzati, perché agli hacker basta concentrare gli sforzi per bucare il server. Quando sono decentralizzati, l’interesse e le possibilità diminuiscono. Mi sembra che il ministro per l’Innovazione tecnologica Pisano stia andando in questa direzione. Ciò non significa che i problemi sono eliminati, ma c’è una forte minimizzazione dei rischi. Inoltre, è bene agganciarsi a protocolli sicuri, quindi ad una PIA. Nessuno ne parla, ma il Governo italiano dovrebbe sviluppare innanzitutto una Privacy Impact Assessment e darne evidenza».

In Europa cosa sta accadendo invece?
«C’è dibattito. In Francia c’è confronto non solo a livello governativo ma anche a livello parlamentare, e, soprattutto, c’è un coinvolgimento reale del Garante per la privacy. Il nostro presidente Antonello Soro ha candidamente detto di non conoscere l’app. In Italia abbiamo tante task force fatte di tanti esperti che non capisco a che servano, poi gli esperti reali, che sono le authority, non sono chiamati».

Così come è successo per la Giustizia.
«Questo fa riflettere su come la questione dei dati qui sia minimizzata. Non sono dell’avviso che bisogna demonizzare certe piattaforme ma determinate scelte vanno fatte in maniera consapevole. Si verificano le condizioni generali, quindi i contratti, e il loro impegno in materia di sicurezza. È chiaro poi che se si paga un po’ di più, quel dato è un po’ più tutelato».

Come stanno lavorando invece Google e Apple?
«Hanno stipulato un accordo sulla interoperabilità del bluetooth che, su richiesta di Apple, dovrebbe favorire un accordo decentrato. Quindi, se ‘Immuni’ dovrà dialogare con i sistemi iOs e Android dovrà utilizzare un protocollo decentrato, altrimenti avrà molti più problemi di diffusione. Si tratta comunque di app che saranno sui market Google e Apple, per cui almeno in maniera teorica loro potrebbero acciuffare o verificare dei dati. Bisogna accettare questo rischio e sviluppare l’applicativo nel modo più tutelante possibile».

Qual è, secondo lei, la soluzione auspicabile?
«Il Governo dovrebbe impossessarsi dell’applicativo, sviluppandolo direttamente. Ne acquisisce piena titolarità, tutti i codici e lavora insieme al garante privacy e a tutti gli altri esperti, garantendo i processi di anonimizzazione. Altrimenti quantomeno dobbiamo essere resi edotti su ciò che accade. Non dimentichiamo che l’app è stata creata dalla Bending Spoons e Jakala, due società di Big Data che hanno interessi su quei dati. Se ci rassicura sull’utilità dell’app, va bene. A questo punto, per alcune categorie a rischio, come medici e infermieri, dovrebbe essere obbligatoria. È chiaro però che dovrebbe avere dei presidi di natura costituzionale, addirittura rafforzati, con una limitazione temporale».

In caso contrario, la scaricherà?
«Assolutamente no. E lo dirò a tutti coloro che me lo chiederanno. Molte dittature nascono sulla paura. Del diverso, dello straniero, del virus. Sono sempre nate così, sulla paura oltre che su un’abile comunicazione. Imporre un applicativo è un’avvisaglia, se fatto in questo modo. E poi l’uso delle task force non aiuta».

Così come è successo con l’app…
«A vedere bene quello che è successo, ‘Immuni’ è stata presentata al Governo i primi di marzo. Ancora prima dell’avviso di selezione della task force per la scelta dell’app. Poco prima che venisse ricevuta dall’Esecutivo, la Bending Spoons aveva donato un milione alla Protezione Civile. Ottima cosa, per carità. Però c’è una società che dona un milione, poi presenta un’app, poi ancora c’è il ministro Pisano che indice la selezione veloce. Rispondono in 300, tra cui la Bending Spoon. In pochissimi giorni viene selezionata ‘Immuni’, l’unica guardata prima. Si è solo cercato di giustificare burocraticamente la scelta fatta. La cosa migliore sarebbe stata dire “abbiamo visto ‘Immuni’, ci è piaciuta, la stiamo facendo lavorare e vi spieghiamo perché”. Chiarezza. Il codice degli appalti lo permetterebbe pure in caso di emergenza, non è che bisogna mascherarsi e fare delle barzellette».

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mercoledì, 29 Aprile 2020 - 17:02
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