Le giravolte della crisi di Governo tra un Salvini neo- europeista e i grillini abbracciati a Rousseau per non morire

Matteo Salvini (foto Kontrolab)
Matteo Salvini (foto Kontrolab)

«Mentre altri mettono veti e fanno capricci, noi abbiamo buttato il cuore oltre l’ostacolo. Ci sono momenti nella storia in cui il Bene comune viene prima degli interessi di parte se è in gioco la difesa dell’interesse della Nazione». Testo e musica di Matteo Salvini, leader della Lega – oggi primo partito del Paese nei sondaggi, pronto a scavalcare la trincea dell’opposizione per appoggiare il governo in fieri di Mario Draghi.

Una vera e propria ‘conversione’ per il leader che ha fatto del sovranismo la propria bandiera e che domani si ritroverebbe in un Governo a fortissima spinta europeista e senza la possibilità, che gli era stata concessa nel Conte uno, di fare dei migranti la propria bandiera ideologica e di azione. Del resto il programma dell’ex presidente della Bce, illustrato ai partiti durante le consultazioni, è eurocentrico: il Recovery Plan, prima di tutto, poi le riforme chieste dall’Europa come quella della giustizia, del fisco, della pubblica amministrazione. Un pacchetto di riforme che odora di Ue e che Matteo Salvini, con una scelta non compresa da tutta la base ma su cui il partito si sta dimostrando graniticamente coeso, ha di fatto accettato. L’unico no alla fiducia a Draghi dalle parti del centrodestra è infatti quello di Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia); gli alleati, invece, salgono sulla scialuppa guidata dall’economista.

Per un partito di Governo, diventato di opposizione e oggi di nuovo di Governo, ce n’è un altro che fa i conti con una lacerazione interna così profonda da far presagire una scissione. E’ il Movimento Cinque Stelle che ieri ha annunciato che il 10 e 11 febbraio i suoi iscritti voteranno su Rousseau. Una scelta che vuole silenziare i malumori, fortissimi dopo l’addio a Conte, ma che comunque spacca il Movimento. A pesare è il fatto che si tratti di fatto di una decisione calata dall’alto da Davide Casaleggio, improvvisa e troppo a ridosso della fine delle consultazioni.

E lo scontro si estende anche, come sempre nella storia recente dei grillini, sulla formulazione del quesito, che dovrebbe essere scritto da Beppe Grillo dopo i dissidi sulla eventualità che a vergare le domande fosse Casaleggio o il reggente Crimi (cui dovrebbe spettare). L’esito della votazione (aperta ai 100mila iscritti al M5s) non è scontata e rischia di portare i pentastellati dinanzi al rischio di una scissione. A guidare la frangia ortodossa il solito Alessandro Di Battista, forte del consenso della base più fidelizzata e radicale del Movimento, quella per intendersi dei primordi, che non accetterebbe mai una svolta così smaccatamente europeista che arriverebbe con il sì a Draghi. Con Di Battista, una truppa di senatori malpancisti e una schiera di iscritti che potrebbero far saltare il banco e portare il Mo5s agli albori della sua storia, quando non era partito di Governo ma movimento di piazza e di rottura. Oggi intanto Vito Crimi e la delegazione grillina saranno da Draghi per l’ultimo atto delle consultazioni, e dall’esito dell’incontro verranno fuori quelli che saranno probabilmente i quesiti su Rousseau. Un passaggio storico, quello che attraversano i pentastellati, che non potrà essere indolore ma che segna anche un nuovo capitolo nella storia breve ma intensa del Movimento. Passato dalle piazze e i ‘vaffa’ urlati dal palco dei comizi, alla vittoria del 2018, dal Governo con Lega a quello del Pd, dal voto di rottura al partito di Palazzo, dalla democrazia partecipata con le dirette streaming alle lacerazioni interne, le dichiarazioni sibilline, alle le spinte centrifughe verso l’autodistruzione.

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martedì, 9 Febbraio 2021 - 09:10
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