Processo a Palamara e Fava, Pignatone racconta la sua verità in aula: «Su di me fango, calunnie e accuse infondate»

Giuseppe Pignatone
Giuseppe Pignatone
di Gianmaria Roberti

Processo di Perugia a Palamara e Fava, è il giorno di Pignatone. L’ex procuratore capo di Roma – oggi presidente del tribunale vaticano – sfila come testimone davanti ai giudici umbri, per rispondere alle domande dei pm Mario Formisano e Gemma Miliani.

L’aula è quella del processo per rivelazione di segreti d’ufficio, dove sono imputati Luca Palamara, magistrato radiato ed ex consigliere del Csm, e Stefano Rocco Fava, pm di Roma all’epoca dei fatti, oggi giudice civile a Latina. Sullo sfondo si agitano gli spettri che, da tre anni, tormentano la magistratura. Il clima evocato è un po’ kafkiano.

«Dal 29 maggio 2019 – si sfoga Pignatone nell’udienza di ieri 6 aprile – non ho mai parlato aspettando di essere in una sede istituzionale. In questi tre anni ho avuto su di me e sui miei familiari fango, calunnie e accuse». L’ex procuratore della Capitale parla dell’esposto di Fava al Csm. Bersagli erano lui e il procuratore aggiunto Paolo Ielo. Sul caso aleggiava l’ombra dell’onnipresente avvocato Piero Amara, quello – ma è tutt’altra vicenda – delle rivelazioni sulla presunta Loggia Ungheria. Quell’esposto – allungando la scia di veleni – è stato archiviato per decorrenza termini da Palazzo dei Marescialli. Nell’atto, relativo ad un’indagine su soggetti legati ad Amara, Fava segnalava un presunto conflitto di interessi dei colleghi. I fratelli di Pignatone e Ielo, infatti, hanno avuto rapporti professionali (legittimi), rispettivamente con Amara e l’Eni. Pignatone, in aula, si dichiara «il primo a essere dispiaciuto del fatto che il Csm non abbia potuto fare una verifica su quelle quattro carte».

Perché? «Avrebbero capito che non c’era nessuna incompatibilità e che io ho fatto quello che dovevo fare». L’ex procuratore di Roma, infatti, non si astenne in quel procedimento. «Ho sentito – sottolinea Pignatone – le molte doglianze del dottor Fava, alcune partite da lui e altre riportate: scippo di processi, misure cautelari che non hanno avuto corso. Nessuna di queste è fondata e faceva parte dell’esposto al Csm che verteva su una presunta incompatibilità».

Nel processo di Perugia, a Palamara e a Fava si contesta la rivelazione di notizie d’ufficio «che sarebbero dovute rimanere segrete». A Fava di aver predisposto «una misura cautelare nei confronti di Amara per il delitto di autoriciclaggio e che anche in relazione a questa il procuratore della Repubblica non aveva apposto il visto». L’ex pm è anche accusato di essersi «abusivamente introdotto nel sistema informatico Sicp e nel Tiap acquisendo verbali d’udienza e della sentenza di un procedimento». Secondo i pm perugini, Fava mirava «ad avviare una campagna mediatica ai danni di Pignatone, da poco cessato dall’incarico di procuratore di Roma e dell’aggiunto Paolo Ielo», anche con «l’ausilio» di Palamara.

Le accuse di istigazione a Palamara, tuttavia, sono state archiviate. «Non c’erano motivi di astensione» ribadisce Pignatone. Seguendo la tesi di Fava, altrimenti, «io – spiega l’ex procuratore capo – non avrei mai potuto fare tanti processi, come quello Cucchi o Consip». E sui rapporti “contestati”, Pignatone fornisce alcune spiegazioni. «Ho fatto presente ai colleghi – racconta – di aver conosciuto Fabrizio Centofanti, di aver cenato una volta a casa sua con la ministra Pinotti. Riccardo Virgilio (allora presidente di sezione del Consiglio di Stato ndr) lo avevo conosciuto quando era a Palermo, non avevo mai cenato con lui, né avevo il suo numero. Nel corso di alcuni interventi di Fava questa conoscenza diventò “amicizia trentennale”: io non ho avuto un rapporto di amicizia con Virgilio, un’amicizia che non è mai esistita ma è stata una conoscenza superficialissima. Di Virgilio non ne parlai al procuratore generale perché eravamo sotto la soglia minima della conoscenza e dell’astensione».

Quanto all’imprenditore Ezio Bigotti, «quando sono venuto a conoscenza della sua iscrizione – aggiunge Pignatone – ho subito detto ai colleghi che era cliente di mio fratello». In quella circostanza ricorda la sua «relazione al procuratore generale che ha proceduto a dire che non c’erano elementi per l’astensione». Pignatone chiosa: «Io sono convinto che non c’erano motivi di astensione ma ho ritenuto opportuno farlo sul piano della lealtà professionale».

giovedì, 7 Aprile 2022 - 10:56
© RIPRODUZIONE RISERVATA