Omicidio Ammaturo, 40 anni di misteri tra Br, camorra e servizi. La figlia Maria Cristina: «Dateci la verità»

Maria Cristina Ammaturo
Maria Cristina Ammaturo
di Gianmaria Roberti

Il tono è misurato, sobrio, ma fermo e inscalfibile. «Dopo 40 anni, fate luce sull’omicidio di mio padre». Maria Cristina Ammaturo è una distinta signora dai capelli grigi. Parla alla Camera dei deputati, alla cerimonia del “Giorno della Memoria” per le vittime del terrorismo e delle stragi tenutasi ieri 9 maggio.

Quando ammazzarono il padre, il vice questore Antonio Ammaturo, Maria Cristina era studentessa di architettura. Era il 15 luglio del 1982, in piazza Nicola Amore a Napoli. La coda degli Anni di piombo incrociava la guerra di camorra, tra cutoliani e Nuova Famiglia. Una mattanza da centinaia di morti l’anno. Ammaturo, capo della squadra mobile, fu freddato da un commando delle Brigate Rosse, sotto casa sua. Nell’agguato cadde anche l’agente scelto Pasquale Paola, il suo autista.

«Non è facile per me rievocare quel giorno – dice Maria Cristina Ammaturo-, per il bagaglio di dolore che ha determinato, ma sento il dovere di portare la testimonianza di quegli avvenimenti che hanno segnato la storia del nostro Paese, le cui dinamiche, a distanza di 40 anni, non sono state ancora del tutto chiarite». Il duplice omicidio, nel vortice di sangue dell’epoca, non è come gli altri. A distanza di quattro decenni sembra sospeso, ristagna in una terra di mezzo. Si situa tra le convulsioni del terrorismo e l’esplosione del potere camorrista. Un filo invisibile tra quelle due guerre: il sisma del 1980, ed un famoso rapimento, intrecciato al terremoto. L’anno seguente, il 1981, infatti «fu anche – rievoca la figlia di Ammaturo – l’anno del sequestro Cirillo, l’assessore all’Urbanistica della Regione Campania, ad opera delle Brigate Rosse. E delle oscure trattative avvenute per la sua liberazione, che videro la partecipazione di Raffaele Cutolo, dei servizi segreti e di personaggi politici».

Cutolo, il fondatore della Nco. Quell’anno era già in carcere. Ma non era una detenzione qualsiasi, si scoprirà. Nella sua cella, ad Ascoli Piceno, venivano in processione politici e agenti segreti. Ammaturo si occupava spesso di lui. Al Castello mediceo di Ottaviano, comprato dal capoclan, il vice questore «guidò un’irruzione, mentre – ricorda la figlia – era in corso un summit fra camorristi. Fra gli altri venne arrestato anche il figlio del boss, Roberto Cutolo». Il dirigente della squadra mobile, insomma, era una spina nel fianco per la camorra. Ma ad eliminarlo sono stati i brigatisti: questo stabilisce la verità giudiziaria, una verità imperfetta. «L’assassinio fu rivendicato, con un farneticante comunicato, dalle Brigate Rosse – rammenta Maria Cristina Ammaturo-. La cosa mi apparve strana, poiché mio padre non si era mai occupato di terrorismo».

Non è l’unica stranezza, in questa storia. In quel periodo «c’erano stato minacce di morte. Una telefonata, giunta alla sorella, di avvertimento a stare molto attento. Il suo nome era stato trovato in un covo di brigatisti». E il vice questore? «Lui negli ultimi tempi era preoccupato per le minacce, ma continuava ad andare avanti con le sue indagini». La voce di Maria Cristina, dopo tanti anni, non cede all’emozione. Non è più momento. C’è ancora da scalare una salita. Una strada ripida, aggrappandosi alle denunce, irriducibili. «So che per lui era stata chiesta una macchina blindata, che non arrivò».

Il gruppo di fuoco crivellò le due vittime. Cinque le condanne all’ergastolo: i brigatisti Vincenzo Stoccoro, Emilio Manna, Stefano Scarabello, Vittorio Bolognesi e Marina Sarnelli. «Gli esecutori del delitto furono uomini delle Brigate Rosse – ricostruisce Maria Cristina Ammaturo-. Alcuni, feriti nella fuga, furono curati e aiutati da camorristi». Ma «i mandanti del duplice omicidio non sono stati mai identificati». Su quei mandanti, si torna a invocare chiarezza. E dettagli importanti, nel racconto, si mischiano al vissuto familiare. «Mio padre non parlava delle indagini che svolgeva – premette la donna-. Ricordo che un giorno, prima dell’attentato, ci chiese: “Cosa sapete del sequestro Cirillo?”. E ci disse del pagamento alle BR di una somma di un miliardo e mezzo, cosa di cui allora non vi era conoscenza. Oggi questo fatto è noto». E tuttavia: «Su quali fossero le altre condizioni per la liberazione, ad oggi non è stata fatta luce completa».

La famiglia Ammaturo chiede una verità riparativa. Il discorso, parola dietro parola, enumera fatti e circostanze. Mette insieme tessere di un possibile mosaico. E si fa incalzante. «Vorrei ricordare – aggiunge la figlia del poliziotto – che in un covo di Senzani – esponente della colonna napoletana delle Brigate Rosse, che aveva condotto il sequestro Cirillo, già criminologo ex consulente del ministero di Grazia e Giustizia – fu trovato un appunto, da cui risultava che la camorra, oltre ad offrire armi e denaro, in cambio della liberazione dell’assessore, richiedeva alle Brigate Rosse “l’annientamento di alcuni sbirri operanti sul territorio”. Mi riferisco all’ordinanza di rinvio a giudizio del giudice Imposimato, processo Moro ter».

Ma non è tutto. «Nel ’93 – riferisce la donna – i giornali titolavano che un camorrista dissociato, Galasso (il pentito Pasquale, ndr), dichiarava che sull’omicidio Ammaturo vi sono scheletri negli armadi. Allora con mia madre e le mie sorelle chiedemmo alla Procura la riapertura delle indagini, allo scopo di arrivare alla verità». Eppure «l’inchiesta sull’omicidio non è mai stata riaperta, l’assassinio di mio padre rimane uno dei fatti oscuri della nostra storia recente, su cui chiedo che sia fatta finalmente luce». Di Antonio Ammaturo resta la Medaglia d’oro al valore civile, conferita nel 1983 dal presidente Sandro Pertini. Ma soprattutto, restano domande senza risposta, e una richiesta di giustizia.

martedì, 10 Maggio 2022 - 13:09
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