Caso Moro all’Antimafia, parla Abbatino: «Cutolo chiese aiuto alla Magliana, noi vedemmo Piccoli e trovammo il covo Br»

di Gianmaria Roberti

La camorra, la banda della Magliana, i Servizi e il Caso Moro. Di certi intrecci, nei 55 giorni del rapimento dello statista Dc, molto si è parlato in passato. Ora è tornata a occuparsene la Commissione Antimafia. Nella relazione approvata a settembre, al termine dell’ultima legislatura, emergono alcuni dettagli. Il 24 febbraio 2022, la Commissione ha ascoltato Maurizio Abbatino, boss della Banda della Magliana, collaboratore di giustizia dal 1992.

Abbatino, Il Freddo della saga cinematografica, ha riferito «che era pervenuta alla banda della Magliana una richiesta di Raffaele Cutolo». Il tramite sarebbe stato «Nicolino Selis (elemento di spicco della banda e luogotenente cutoliano a Roma, ndr) che – si legge nella relazione – era detenuto con lui e aveva usufruito di una licenza – di interessarsi del sequestro dell’onorevole Moro. Era stato quindi stabilito un contatto con l’onorevole Flaminio Piccoli». Abbatino avrebbe assistito a distanza all’incontro, «che si sarebbe svolto tra l’esponente democristiano e Franco Giuseppucci, uno dei fondatori della banda della Magliana. I due si sarebbero incontrati in un punto di passeggio lungo il Tevere».

Secondo il racconto, «l’onorevole Piccoli sarebbe giunto all’appuntamento con la propria autovettura con autista e Abbatino sarebbe rimasto ad una certa distanza per controllare la sicurezza della zona». Al termine «dell’incontro, Abbatino avrebbe saputo che il compito del gruppo criminale romano – scrive la Commissione Antimafia – sarebbe stato quello di individuare il luogo ove l’onorevole Moro fosse tenuto in ostaggio, ma avrebbe manifestato a Giuseppucci il proprio disinteresse per una collaborazione di quel tipo. Questi però gli avrebbe fatto presente che: ‘se riusciamo a fare una cosa del genere ci possiamo dimenticare di andare in carcere’».

Giuseppucci, «sempre stando alle dichiarazioni di Maurizio Abbatino, avrebbe poi individuato l’appartamento che si trovava in via Montalcini, in zona Portuense – riporta la relazione -. Era del resto una zona ‘controllata’ dalla banda della Magliana, anche perché in quell’area si trovava un residence che sarebbe stato più volte utilizzato per ospitare momentaneamente dei latitanti. Il covo si trovava esattamente in un complesso residenziale con quattro palazzine, all’epoca moderne, rialzate rispetto alla strada e con un giardino intorno». Peraltro, alcuni esponenti del gruppo criminale – da Danilo Abbruciati ad Antonio Mancini – abitavano a pochi passi dal numero 8 di via Montalcini, dove Moro risulta sequestrato. L’informazione «sarebbe stata quindi passata a Nicolino Selis che l’avrebbe a sua volta girata a Raffaele Cutolo, il quale verosimilmente avrebbe informato l’on. Flaminio Piccoli».

La commissione sottolinea: «È stato così pienamente confermato quanto dichiarato da Raffaele Cutolo nell’audizione resa nel 2015 dinanzi alla seconda Commissione Moro, nel corso della quale il capo camorrista ha affermato di aver offerto la propria disponibilità per contribuire alla liberazione dell’onorevole Moro e di aver ottenuto una informazione importante sul luogo ove si trovava lo statista rapito; un’informazione, tuttavia, che non sarebbe stata raccolta o comunque sfruttata». Il passaggio della relazione rilancia un tema centrale, nel Caso Moro. Ovvero le presunte opacità della Democrazia Cristiana, durante il rapimento. Una progressiva indifferenza per le sorti del presidente del partito. Atteggiamento indecifrabile – secondo diverse testimonianze – perfino agli occhi delle organizzazioni criminali. I boss sarebbero stati dapprima avvicinati, attraverso diversi canali. Quindi gli sarebbe stato comunicato il dietrofront: per Moro non dovevano più attivarsi.

«Si è quindi trattato – rileva la relazione – di un’iniziativa sostanzialmente analoga e parallela a quella che aveva visto il deputato democristiano Benito Cazora entrare in contatto, tramite intermediari, con l’elemento della ‘ndrangheta Salvatore ‘Rocco’ Varone. Questi aveva garantito l’intervento della sua famiglia a patto di « regolarizzare » la propria posizione giudiziaria». Ed «effettivamente, gli uomini di Varone avevano poi mostrato all’onorevole Cazora la zona di via Gradoli sulla via Cassia, ove si trovava una base delle Brigate Rosse». In quella circostanza, però, «la polizia aveva risposto a Cazora che tale via era già stata battuta palmo a palmo, vanificando così i possibili effetti di svolta sulla vicenda dell’informazione ricevuta».

Anche la testimonianza di Giovanni Pedroni, medico della struttura occulta denominata l’Anello, «una sorta di servizio segreto non ufficiale, la cui operatività è emersa – afferma la relazione – durante le indagini sull’eversione di destra condotte negli anni ’90 e facente capo ad Adalberto Titta, già ufficiale della RSI, ha confermato che, intorno al sequestro dell’onorevole Moro, vi era stato il coinvolgimento di Raffaele Cutolo».

Inoltre, «ha affermato che la sua organizzazione aveva ottenuto, indirettamente, notizie importanti in merito al luogo ove Moro era custodito e infine che tali informazioni consentivano di intervenire e liberarlo». In particolare, Giovanni Pedroni «ha dichiarato di aver saputo da Titta, in seguito adoperatosi con successo per la liberazione di Ciro Cirillo, che ‘l’Anello’ era pronto ad intervenire per liberare Moro, in parallelo, peraltro, con altra iniziativa posta in essere dal Vaticano che comportava il pagamento di un riscatto, ma che tutto si era bloccato per una decisione politica». Titta «era molto amareggiato e gli aveva detto: «’Moro vivo non serve più a nessuno’». Un sospetto che aleggia da 45 anni.

venerdì, 20 Gennaio 2023 - 10:32
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