Omicidio Poggi, colpo di scena dopo 18 anni: indagato amico del fratello della vittima, suo Dna sotto le unghie di Chiara

Alberto Stasi
di Laura Nazzari

C’era del Dna sotto le unghie di Chiara Poggi quando la 26enne fu trovata cadavere nella villa di famiglia a Garlasco (Pavia) il 13 agosto 2007. C’era del Dna e non era di Alberto Stasi, il fidanzato condannato in via definitiva alla pena di 16 anni per il delitto. A chi appartenesse quel profilo genetico lo dicono oggi i risultati di un laboratorio di genetica di fama internazionale, con sede all’estero, e una consulenza disposta nei mesi scorsi dalla procura della Repubblica di Pavia: merito, a quanto pare, dei progressi della tecnologia, che avrebbe consentito di “recuperare” un materiale che all’epoca dei fatti fu scartato perché ritenuto insufficiente.

Il profilo genetico “rianalizzato” è di Andrea Sempio, oggi 37enne, l’amico del fratello di Chiara, inizialmente sentito come teste, poi indagato per un breve arco di tempo su sollecitazione dei difensori di Stati e infine archiviato. Sempio, adesso indagato (a piede libero) per l’omicidio di Chiara Poggi, dovrà recarsi nella sede della scientifica dei Carabinieri di Milano per sottoporsi al prelievo salivare con il tampone. Gli esami per il test del Dna sono stati imposti dal gip di Pavia, dopo che Sempio aveva inizialmente negato il consenso. L’avviso di garanzia per il 37enne è stato notificato la settimana scorsa, l’accusa è di omicidio in concorso con ignoti o con Alberto Stasi, da 10 anni in carcere a Bollate. Sempio, la cui posizione in relazione alla morte di Chiara Poggi era già stata archiviata nel 2017, ha preso la notizia dell’indagine «male, molto male». «Una cosa inaspettata che lo ha sconvolto, peggio della prima volta», ha affermato il suo legale, l’avvocato Massimo Lovati.

È una novità pesante, sia perché l’elemento salta fuori a distanza di quasi 18 anni dall’omicidio e sia perché, per quel delitto, vi è stata già una condanna definitiva giunta a chiusura di un estenuante iter giudiziario basato su prove fortemente indiziarie tanto è vero che prima di arrivare alla chiusura del caso si è passati attraverso cinque processi. A rimettere in moto la macchina inquirente è stato l’avvocato Giada Bocellari, legale di Alberto Stasi, che ha affidato a un laboratorio di genetica di fama internazionale, con sede all’estero, il compito di analizzare nuovamente i reperti biologici sui quali più volte la difesa aveva cercato di attirare l’attenzione della procura per aprire piste alternative sulla morte di Chiara. I reperti fanno riferimento a tracce di cromosoma Y maschile individuate all’epoca sui frammenti di due unghie di Chiara. Gli esami eseguiti dal genetista Francesco De Stefano in occasione del processo d’Appello bis dissero che non era possibile stabilire con certezza a chi apparteneva il profilo: il materiale a disposizione era così degradato che «non era possibile – era l’opinione del professore riportata negli atti – fare alcuna considerazione né in tema di identità, né in tema di esclusione».

Pure nel 2016, quando la difesa di Stasi cercò nuovamente di riaprire il caso, un consulente di parte, Pasquale Linarello, sostenne che il Dna trovato, per quanto incompleto, bastasse ad escludere la presenza di materiale biologico di Stasi e a indicare invece tracce di quello di Andrea Sempio. Ma per i pm, bastò l’alibi esibito da Sempio, ossia lo scontrino di un parcheggio che lo collocava in un lungo diverso all’ora dell’omicidio, a ritenerlo estraneo ai fatti. Del resto all’epoca i pm titolari del caso, scrissero che il tentativo della difesa di Stasi di cercare di indirizzare i sospetti su Sempio non erano altro che «un maldestro tentativo di trovare un colpevole alternativo ad Alberto», «di deviare l’attenzione su fantomatici terzi soggetti». Valutazioni che oggi potrebbero essere suscettibili di una nuova riflessione.
Per l’omicidio di Chiara, Stasi – che all’epoca dei fatti era studente alla Bocconi – è stato condannato in via definitiva dopo un estenuante iter giudiziario costellato da sentenza di segno contrario. Assolto in primo grado il 17 dicembre del 2009 (il gip parlò di quando indiziario «contraddittorio e altamente insufficiente a dimostrare la colpevolezza dell’imputato»), Stasi si vide riconosciuta l’assoluzione nel processo d’Appello con sentenza del 6 dicembre 2011.

Quasi due anni dopo (era il 18 aprile 2013), la Corte di Cassazione annullò il processo di secondo grado e dispose un nuovo processo d’appello, ritenendo che gli indizi contro Stasi fosse stati «svalutati» e sollecitando una integrazione probatoria. Il 9 aprile 2014 si aprì così il processo d’appello bis, al termine del quale – era il 17 dicembre 2014 – Stasi fu condannato a 16 anni. La sentenza, stavolta fu impugnata dalla difesa, ma il 12 dicembre 2015 la Cassazione confermò il verdetto di colpevolezza. Stasi si costituì il giorno successivo accompagnato dalla madre. Da allora è detenuto in carcere, ma non ha mai smesso di sostenere la sua innocenza. Lo scorso 6 febbraio La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha dichiarato irricevibile il ricorso con cui l’uomo, oggi 42enne, chiedeva di annullare la condanna.

martedì, 11 Marzo 2025 - 20:49
© RIPRODUZIONE RISERVATA