Il numero di giovanissimi negli istituti di pena italiani è in aumento. I dati aggiornati a stamattina dicono che ci sono 623 minori detenuti negli Ipm italiani. Di questi 599 sono maschi, 24 femmine, gli italiani sono 305, 318 sono gli stranieri, i minori sono 388 e 235 sono i giovani adulti. «Sono tanti, sono assolutamente troppi», commenta Antonio Sangermano, capo del Dipartimento per la Giustizia minorile e Comunità, al convegno sulla detenzione minorile tenutosi oggi (lunedì 17 marzo) nella sede della Camera penale di Napoli.
DEVIANZA MINORILE, FENOMENO CHE TOCCA ANCHE I FIGLI DELLE FAMIGLIE UP LEVEL
I casi di cronaca su giovanissimi protagonisti, come carnefici, di condotte delittuose non si contano più. L’emergenza è divenuto fenomeno permanente. Un fenomeno che Patrizia Imperato, procuratore della Repubblica per i minorenni di Napoli, analizza attraverso la lente di ingrandimento dei suoi 31 anni di attività a contatto con i giovanissimi e con i reati da loro commessi. Ciò che balza all’occhio, come primo amaro dato, è che, oggi, la devianza minorile tocca sia i figli dell’emarginazione sociale – più esposti alle derive delinquenziali – sia i figli della buona società. «Nel corso di questi 31 anni ho visto cambiare in maniera quasi epocale le condotte illecite poste in essere dai minori – spiega il magistrato -. Esiste ormai una situazione di disagio, che non è più solo una situazione di disagio economico. Ormai i minori sono portatori di un disagio esistenziale che non guarda in faccia a nessuna categoria economica, sociale, patrimoniale. Chi commette reati sono per la maggior figli del degrado sociale, ma anche no».
La condotta delittuosa diventa così una sorta di “richiamo”, un modo per attirare l’attenzione che si è perduta: «È come se i nostri minori vivessero perennemente come portatori di un’ansiosa da prestazione che li porta a commettere condotte non sempre lecite – prosegue la procuratrice -. È come se i ragazzi avessero sete di essere ascoltati, e quando commettono reati diventano visibili ai genitori, e al gruppo dei pari che gli riconosce superiorità rispetto a loro. Diventano visibili al gruppo degli affetti, ai genitori». Quei genitori che, osserva Imperato, «non si rendono più conto dei bisogni dei loro figli». Quei genitori che non esercitano più il potere di controllo che le vecchie generazioni detenevano: «Ci siamo resi conto che molti ragazzi, quando escono di casa, lo fanno con un coltello in tasca – aggiunge Imperato -. Nella maggior parte dei casi, se scoperti, questi ragazzi ti rispondono che lo fanno per difesa. Ma è fin troppo chiaro che se uno ha un’arma, prima o poi la userà». E la userà, in qualche caso, nell’incredulità di mamma e papà. «I genitori sono quelli che meno conoscono i loro figli. Io vedo lo sgomento dei genitori, soprattuto quelli delle famiglie up level, le famiglie della Napoli bene, quando me le trovo davanti per via di reati commessi dai figli», racconta ancora la procuratrice. Non vanno meglio le cose se si guarda al ruolo della scuola: «I ragazzi non sono neanche ascoltati a scuola, le scuole sono ormai imprese – prosegue -. Si pensa ai programmi, ma nessuno osserva più questi ragazzi». La conclusione del disagio è spesso drammatica: «È chiaro che nel momento in cui il minore vive male si sfocia in violenza».
REPRESSIONE O PREVENZIONE: QUEI PUNTI DI VISTA DIVERSI E CONTRAPPOSTI
Se lo scenario nel quale matura il fenomeno di devianza appare chiaro, è sugli strumenti di contrasto che c’è meno condivisione: da un lato c’è il Governo attuale che punta sulla repressione come risposta alla devianza minorile, dall’altro ci sono gli avvocati e i magistrati che invece battono sulla necessità di lavorare sulla prevenzione. Posizioni che oggi, al convegno sulla detenzione minorile tenutosi in Camera penale a Napoli, si sono scontrate, senza però riuscire a dialogare. Antonio Sangermano, capo del Dipartimento per la Giustizia minorile e Comunità, lascia infatti il dibattito praticamente a inizi lavori (lo aveva preannunciato, in programma aveva un impegno a Nisida), non riuscendo ad ascoltare gli altri relatori (ad eccezione dell’avvocato Elena Cimmino), come la procuratrice Patrizia Imperato che pure scuote il capo nel corso di qualche passaggio del referente del ministero, e dando l’impressione di una chiusura a prescindere verso altre posizioni. Chiusura che pare cristallizzarsi in un pensiero che Sangermano ripete due volte: «Non si può impedire a una maggioranza parlamentare ai partiti, di avere delle idee e di attuare un programma».
Una sorta di “rassegnatevi”. Ma gli avvocati in sala non vogliono rassegnarsi. «Il clima che respiriamo in questo paese mai come adesso è inaccettabile. È inaccettabile il clima culturale per il quale la risposta alla devianza minorile è soltanto il carcere», dice in apertura dei lavori l’avvocato Attilio Belloni, intervenuto in rappresentanza del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli. Anche per il presidente della Camera penale di Napoli Marco Muscariello «i fenomeni di devianza non possono trovare risposta nella leva penale», e i più recenti «provvedimenti» del potere politico «sono in assoluta controtendenza a ciò che accade».
Il riferimento è anche al “decreto Caivano”, che ha apportato misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile. «Il nostro è un Paese che ha rinunciato ad investire nel progetto costituzionale del recupero sociale della devianza minorile. Lo Stato risponde a questo problema sociale con la repressione, con il decreto Caivano che ha provocato un incremento notevole dei numeri negli ipm, tanto che oggi c’è un problema sovraffollamento negli Ipm – tuona l’avvocato Elena Cimmino (nella foto a sinistra), vicepresidente de “Il carcere possibile” – Questo tipo di interventi è l’espressione di una deriva culturale». Critiche anche alla volontà di aprire nuove carceri, pure per minorenni, «La risposta repressiva non è adeguata ed è socialmente dannosa. Quando hai dei minori ai margini, e devi decidere se includerli o escluderli dalla società, il carcere è la risposta dell’esclusione dalla società – sottolinea l’avvocato Cimmino -. Questi ragazzi difficilmente usciranno dal carcere minorile migliori di quando ci sono entrati». E, allora, se la risposta penale viene ritenuta «inadeguata», cosa fare? «Bisogna trovare qualcosa di diverso dal diritto penale, proprio perché il diritto penale non ha la funzione di incidere sul disagio sociale – osserva l’avvocato Cimmino -. Bisogna prestare attenzione alle marginalità, agli ambienti, ai contesti sociali. È evidente che bisogna affrontare il problema complesso delle cause in cui matura il reato giovanile. Bisogna chiedersi perché accadono determinate escalation di violenza».
La prevenzione è la strada da seguire anche per la procuratrice della Repubblica per i minorenni Patrizia Imperato: «Io credo sia necessario e doveroso dare una risposta a un ragazzo che commette reato. E quella che noi vogliamo dare è una riposta di prevenzione, che a mio avviso funziona». A un ragazzo che commette reato, insiste Imperato, bisogno tendere «non una, non dieci, non venti ma cinquanta mani». Strumento efficace, per il magistrato, è «la messa alla prova, nella quale io credo moltissimo». Tuttavia – osserva Imperato – questo istituto è inflazionato e si rischia di non poterlo sfruttare appieno. «Vi è una richiesta massima di messa alla prova per tutti i reati. Ho visto richieste di messa alla prova anche per guida senza patente – racconta -. Il punto è che in forza agli uffici dei servizi sociali ministeriali vi è un numero limitatissimo di persone, e per fare dei percorsi che abbiano un senso c’è bisogno di un bilanciamento tra le ‘domande’ e quelli che possono elaborare i progetti». Di qui un appello agli avvocati: «Se ci disperdiamo per fare la messa alla prova, è chiaro che non ci si può concentrare su chi ha più bisogno di essere aiutato. Per cui chiedo agli avvocati di cercare di limitare le richieste di messa alla prova».
Sulla necessità di investire nelle comunità e nei percorsi di recupero dei minori interviene anche Valeria Montesarchio, magistrato di Corte d’Appello di Napoli, che siede tra il pubblico e vuole condividere la sua opinione: «Le comunità, se fossero potenziate a livello locale e collegate con il ministero, sarebbero una risorsa enorme ma questo collegamento al momento non c’è – dice -. Noi abbiamo sul territorio un mancato collegamento e un mancato monitoraggio che sui minori sarebbe utilissimo. Noi, guardando le situazioni di rischio, potremmo prevenire». E sulle comunità chiede: «Dove sono le comunità? Bisogna potenziare le strutture locali, finanziandole e collegandole con il centro. Vogliamo mettere questi minori nei percorsi, li seguiamo e li aiutiamo concretamente? Questo è l’unico concreto modo per contrastare la devianza minorile. Per combattere ciò che vediamo tutti i giorni, ci vuole impegno sociale e giuridico».
Difende, invece, a spada tratta la via repressiva Antonio Sangermano, capo del Dipartimento per la Giustizia minorile e Comunità. «Il decreto Caivano può avere aumentato i numeri delle detenzioni, ma dire che il decreto Caivano ha prodotto il sovraffollamento è una forzatura ideologica – esordisce Sangermano -. Il ‘Caivano’ è piuttosto la risposta a un problema, è l’effetto di una causa. Questa norme rispondono a una emergenza sociale effettiva». «Il ‘Caivano’ – prosegue Sangermano – non è una norma antidemocratica, securitaria e repressiva come certa narrazione fa sembrare. Non è che entrano i fasci dalle finestre e vengono le squadracce a portarci. ‘Il Caivano’ mi piace, certamente tutto è perfettibile. Inoltre va ricordato che il decreto Caivano è frutto dell’indirizzo politico di un governo della Repubblica eletto dal popolo».
L’indirizzo politico vuole anche un aumento del numero delle carceri, piano contestato dagli avvocati. «Se i numeri delle persone ristrette aumentano, l’aumento delle carceri serve a consegnare ai detenuti maggiori spazi di agibilità detentiva – replica Sangermano -. In questo modo non si va a carcerizzare ma a implementare i comportamenti trattamentali in spazi adeguati. Vogliamo fare stare meglio i ragazzi e aumentare il comparto comunitario».
Sul ruolo del carcere, Sangermano insiste: «Non esiste una società in cui possa essere abolito il carcere. È illusorio, è ideologico. Esiste una società che ha il dovere di migliorare al massimo il carcere, residualizzando al massimo, di renderlo effettiva extrema ratio, non extrema ratio a parole. Un carcere di vetro, un ipm di vetro, una comunità chiusa dove vi sia larga prevalenza dell’approccio trattamentale con una forte implementazione delle figure sociali adeguate alla realtà di un 51% di minori stranieri non accompagnati, quindi entrano psichiatri, psicologici, mediatori culturali, personalità religiosi, assistenti sociali, impegno scolastico, teatro cinema, letteratura, amore per la via». «Non possiamo pensare – conclude sul punto Sangermano – che se un ragazzo uccide un altro sparandogli per strada, non ci sia una normale reazione per neutralizzare la pulsione antisociale di quella persona». Quindi la chiosa, che suona un po’ come un messaggio ad accettare quello che viene stabilito dal Governo: «È tempo di riforme, di grandi riforme», dice Sangermano, che infila nel dicorso pure un passaggio sulla separazione delel carriere che ha «una grande dignità accademica, culturale, sistemica e comparativistica sul piano internazionale». «Quello che è indiscutibile è il diritto di un Governo di attuare le riforme secondo un metodo democratico previsto dalla stessa costituzione, mediante l’articolo 138. Non si può impedire a una maggioranza parlamentare ai partiti, di avere delle idee e di attuare un programma».
lunedì, 17 Marzo 2025 - 22:33
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