Consentire al detenuto Emanuele De Maria di accedere al mondo del lavoro durante l’espiazione di una condanna definitiva per l’omicidio di una 23enne tunisina è stato un errore di valutazione? La domanda rimbomba da lunedì, quando il napoletano si è suicidato lanciandosi dalle terrazze del Duomo di Milano dopo avere ucciso una collega di lavoro dell’hotel Berna di Milano e avere accoltellato un altro dipendente della struttura. E a quella domanda sta cercando di dare una risposta la procura della Repubblica di Milano. Si parte dall’analisi delle le relazioni del fascicolo “trattamentale” del carcere di Bollate, dove De Maria era detenuto, e dalle testimonianze di tutti quelli che negli 18 mesi hanno avuto a che fare con il 35enne napoletano sul posto di lavoro. In quelle relazioni, fatte acquisire dal pm Francesco De Tommasi, si attesta che De Maria ha avuto un percorso «positivo», senza alcun deragliamento, e che durante i due anni di lavoro esterno non ha mai destato alcun sospetto.
Nel primo documento, era stato segnalato che Emanuele era una persona collaborativa, che aveva dato segni di resipiscenza, aveva iniziato a studiare e aveva dato anche due esami universitari. Anche nella seconda relazione, incentrata sul suo percorso di lavoro nell’albergo e seguita alla richiesta di un permesso premio ulteriore, si segnalava che fosse una persona senza segni di squilibrio psichico.
Di conseguenza, sulla base dei rapporti redatti dagli operatori e secondo l’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario italiano, la giudice Giulia Turri aveva dato, tramite un provvedimento di poche righe, l’ok per il permesso di svolgere attività lavorative esterne al carcere, così da poter favorire il reinserimento sociale di De Maria.
A confermare la bontà dell’operato del magistrato di Sorveglianza che ha concesso il permesso per il lavoro esterno è poi arrivata, all’indomani dei tragici fatti, una nota congiunta firmata dal presidente della Corte d’Appello, Giuseppe Ondei e dal presidente facente funzione del Tribunale di Sorveglianza, Anna Maria Oddone nella quale si è presso che «il provvedimento emesso dall’Ufficio di Sorveglianza» aveva «per oggetto l’approvazione del programma predisposto dall’area trattamentale della Casa di Reclusione di Bollate di ammissione al lavoro all’esterno» come prevede l’articolo 21 della legge sull’ordinamento penitenziario, che è «applicabile a tutti i detenuti nel rispetto della normativa ordinaria». E, quindi, si è dato atto che l’acquisizione di «informazioni dalle forze dell’ordine» e al termine di «un’istruttoria» con «l’amministrazione Penitenziaria e tutti i soggetti coinvolti nella gestione del trattamento detenuto», al fine di «garantirne la rieducazione».
Sembra, dunque, che nulla lasciasse presagire l’orrore che si è consumato nell’arco di 48 ore. Eppure gli inquirenti sospettano che qualche segnale c’è stato. E intendono coglierlo. Così dalle testimonianze che gli investigatori stanno raccogliendo si vuole capire se effettivamente De Maria abbia tenuto un comportamento irreprensibile sul posto di lavoro, in quell’albergo dove lavorava come addetto all’accoglienza dei clienti, se effettivamente non vi siano mai state discussioni o se abbia violato le prescrizioni imposte dal beneficio del lavoro esterno.
Mentre il lavoro della procura di Milano va avanti, la politica si interroga. All’interno del Governo Meloni c’è già chi apre un fronte di riflessione che potrebbe sfociare in una nuova norma. «Ci sono, a mio parere, due temi da valutare. Il primo, di carattere generale, è capire se, per certi tipi di reati, sia necessario un ripensamento riguardo alla possibilità di usufruire del lavoro all’esterno. Compito che spetta al Parlamento e alle sue riflessioni, evitando scelte d’impeto, determinate da emotività, anche se forti e drammatiche», ha detto nei giorni scorsi il viceministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto. L’esponente del Governo ha comunque sottolineato l’importanza di non mettere in discussione i percorsi rieducativi per via di un «caso molto particolare, molto specifico». «Quanto accaduto può, e forse poteva, indurre a un maggiore approfondimento sulla concessione di permessi in casi di femminicida acclarato, visto che nel 2016 De Maria aveva già ucciso una donna, con analoghe modalità. Di certo però la vicenda non deve sminuire la necessità di quei percorsi rieducativi che all’interno delle carceri sono i soli che possono portare il detenuto a riavere un ruolo nella società – ha detto Sisto -. Se tragedie come questa fossero il pretesto per chiudere i rubinetti della rieducazione, avremmo un rimedio peggiore del male». Meno moderato nei toni, il vicepremier Matteo Salvini: «Da italiano vorrei capire perché gli hanno permesso» di uscire dal carcere. «Come governo andremo fino in fondo: bene ha fatto il ministro della Giustizia a chiedere chiarimenti», ha concluso Salvini. Oggi, intanto, è stato dimesso dall’ospedale di Niguarda il 51enne di origine egiziana, dipendente dell’hotel Berna di Milano, accoltellato all’alba dello scorso sabato da De Maria. Un’aggressione violenta, come documentato dalle telecamere di via Napo Torriani. Il 51enne, ferito da cinque coltellate a collo e torace, era stato portato in gravi condizioni all’ospedale di Niguarda, dove per sette ore lo hanno operato gli specialisti del trauma team.
venerdì, 16 Maggio 2025 - 18:42
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