“Oriri” di Bellina a Napoli: arte e denuncia contro la tratta sessuale delle donne. Melillo: «Non è stato fatto abbastanza»

di Daria Romano

Un convegno fatto da donne, per le donne, nella casa della giustizia. È con questa premessa che venerdì 16 maggio, presso la Sala Arengario del Palazzo di Giustizia di Napoli, si è svolto l’evento inaugurale della mostra “Oriri” del fotografo Francesco Bellina, promossa dal Movimento per la Giustizia – art. 3 E.T.S.

La scelta di questo luogo, simbolo della legalità e della tutela dei diritti, non è stata casuale: l’intenzione era quella di portare dentro le aule della giustizia una testimonianza potente delle nuove e vecchie schiavitù, in particolare in relazione alla tratta sessuale delle donne africane. Il progetto fotografico, frutto di un lavoro sul campo tra il 2016 e il 2020, si concentra sul vincolo religioso e rituale che lega le vittime ai loro sfruttatori, attraverso riti vodoo praticati in Benin, Ghana, Niger e successivamente consolidati in Europa, fino a Palermo.

Ad aprire i lavori è stata Ida Teresi, sostituta procuratrice nazionale antimafia e ideatrice dell’iniziativa, che ha raccontato le origini del Movimento per la Giustizia – art. 3 E.T.S., nato alla fine degli anni ’80 all’interno dell’Associazione nazionale magistrati per iniziativa, tra gli altri, di Giovanni Falcone. Teresi ha spiegato che oggi il Movimento ha assunto una nuova forma, diventando un ente del terzo settore che si occupa di cultura della legalità, diritti umani e sostegno ai soggetti deboli, coinvolgendo non solo magistrati ma anche professori, cittadini e operatori della società civile.

 

«Abbiamo scelto di portare qui Francesco Bellina perché il suo lavoro è una denuncia che interpella la nostra coscienza civile. Le sue fotografie – ha detto Teresi – rappresentano non solo la sofferenza di migliaia di donne, ma svela la responsabilità dell’Occidente, che ha storicamente sfruttato culture, corpi e territori». Il tema scelto ne chiama molti altri e costringe a una riflessione comune: «Abbiamo smesso di considerare intoccabili alcuni diritti fondamentali – ha osservato Teresi – e tra questi il rispetto della persona umana, indipendentemente dalla sua etnia, dal colore della pelle, dall’identità di genere o dalla sua condizione migratoria». Teresi ha sottolineato come, anche dal punto di vista giudiziario, le difficoltà siano enormi, perché il fenomeno si sviluppa sotto la superficie, sorretto da rituali religiosi che impediscono alle vittime di denunciare: «Il metus mafioso – ha detto – è qui rafforzato dalla paura sacra. E nonostante ci siano gruppi di lavoro come il nostro ‘Gruppo tratta’, la verità è che processi importanti ancora non ce ne sono stati in Italia. Eppure, la tratta è il core business delle nuove mafie, in particolare quelle nigeriane». Per questo, la responsabilità è anche e soprattutto sociale: «Dobbiamo affidarci alle reti, agli insegnanti, agli operatori, alla cittadinanza, affinché si spinga verso la denuncia e si rompa questo silenzio», ha concluso il magistrato.

Francesco Bellina ha ringraziato le relatrici, tutte donne impegnate nel campo della giustizia, per aver accolto il suo lavoro. «Sono felice di essere qui, nel Palazzo di Giustizia di Napoli», soprattutto perché «tra Sicilia e Campania esiste un legame profondo, fatto di sofferenza, lotta e determinazione». Oriri significa letterlamente “incubi”, per poter richiamare le atrocità di cui il fotografo è stato testimone, dalle strade di Palermo fino alle connection houses di Benin City. Una delle fotografie che più colpisce gli spettatori è quella della donna con indosso il giubbotto di salvataggio che abbraccia un gruppo di bambini: «non erano suoi figli, erano per la maggior parte frutto di stupri nei lager libici, eppure lei li proteggeva come fossero suoi, dando forza anche – dietro di lei – alla madre dei piccoli». È in questa manciata di scatti, stampati e messi in fila su cavalletti, che si può tastare la potenza della donna, in grado di farsi forza per gli altri anche nella disperazione più totale. «Il punto di svolta per me è stato quando ho fotografato una ragazza a Palermo, in una stanza chiusa a chiave, con le finestre sbarrate e il letto sfondato – ha raccontato -. Mi era stato impedito di parlarle e – con un coltello puntato alla schiena – sono stato costretto a scattare senza il suo consenso». Da quel momento Bellina ha capito cosa si prova ad essere vittima, perciò ha dato inizio al suo viaggio «a ritroso, per capire da dove veniva quella donna e come potevo restituirle dignità».  Le foto non sono altro che un tentativo di dar voce a chi non può farlo.

A intervenire è stata poi Maria Rosaria Covelli, presidente della Corte d’Appello di Napoli, che ha voluto evidenziare la forza simbolica di esporre questa mostra proprio in un palazzo di giustizia: «Questo è un luogo che rappresenta la legge, ma anche il dovere di non restare indifferenti. Quelle donne fotografate da dietro, ferme in un angolo buio, in stanze spoglie, parlano di un’assenza di identità e di un’umanità violata». Dietro a ogni volto nascosto c’è una persona che non ha scelto la propria condizione ma vi è stata costretta; questa forzatura ricade sugli occhi dello spettatore, al quale viene chiesto di non voltare lo sguardo ma di cercare di ricucire la ferita sempre aperta nella nostra società. Covelli ha riportato dati allarmanti: 50 milioni di persone vivono oggi in condizioni di schiavitù moderna, oltre 12 milioni sono minori. Solo in Italia più di 2000 vittime sono assistite ogni anno, la maggior parte donne tra i 18 e i 30 anni. «Il fenomeno riguarda da vicino anche la Campania – ha aggiunto Covelli -. A Castel Volturno, dove convivono più di 90 nazionalità, il caporalato e la tratta sono realtà quotidiane». Alla disarmante realtà nascosta che ci circonda, la presidente contrappone iniziative preziose da supportare, come il progetto ‘Fuori Tratta’ della cooperativa Dedalus o come la casa di accoglienza ‘Aisha’. «Dobbiamo sostenere questi sforzi, formarci e riconoscere il peso della cultura e dei modelli religiosi che contribuiscono all’assoggettamento – ha concluso Covelli -. La sfida è complessa, ma va affrontata collettivamente, con determinazione e consapevolezza».

La giudice del lavoro Marta Correggia ha offerto un intervento toccante e denso di riferimenti letterari. Autrice del romanzo “Il mio nome è Aoise”, ispirato alle storie delle donne nigeriane ascoltate a Castel Volturno durante la sua attività in procura, Correggia ha ribadito, in riferimento alle parole del curatore della mostra Luca Santese, che le fotografie di Bellina «sono belle, vere e buone». Raccontano la sofferenza, ma anche il desiderio di giustizia e la rimandano immediatamente alle parole di Albert Camus, che sosteneva nel ’57 in seguito alla vittoria del Nobel: “Nel mondo c’è la bellezza e ci sono gli oppressi. Per quanto difficile possa essere, vorrei essere fedele a entrambi». Bellina riesce a coniugare il bello e il giusto, il vero e il resistente. Le sue immagini non parlano di masse anonime, ma di esseri umani, con una voce, una storia, una richiesta di ascolto. “L’arte è perfettamente compatibile con la giustizia, perchè è ciò che le dà ossigeno – ha spiegato Correggia, osservando Sala Arengario – è quel respiro che ci manca mentre scriviamo sentenze, ascoltiamo testimonianze, leggiamo fascicoli».

Anche il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo ha preso la parola, sottolineando la portata storica e globale del fenomeno della tratta: «Siamo di fronte a una nuova forma di destabilizzazione, che attraversa l’Africa ma ha radici anche in Europa. Il traffico di esseri umani, in particolare delle donne, è stato già in passato motore di espansione per le organizzazioni criminali». Il pensiero del procuratore va alla tratta delle bianche all’inizio del Novecento, che partiva proprio dall’Italia. «Oggi assistiamo a una nuova indifferenza che rende possibile l’invisibilità del crimine» ed è proprio per questo motivo che «il lavoro di Bellina è un atto giornalistico e artistico insieme, collocabile forse più nel campo del giornalismo d’inchiesta che in quello della fotografia». «Dobbiamo riconoscere che su questi fenomeni non abbiamo ancora fatto abbastanza», ha concluso Melillo, auspicando che la mostra, che sarà a breve visitata da studenti e magistrati europei in arrivo dalla Scuola superiore della magistratura, diventi uno strumento formativo e di sensibilizzazione.

L’incontro si è concluso con un momento conviviale a cura della cooperativa sociale Eureka, realtà che lavora su beni confiscati alla camorra, impiegando giovani con disabilità nella produzione alimentare. Una scelta coerente con il senso profondo della giornata: mostrare che è possibile rispondere allo sfruttamento con la restituzione, alla violenza con la cura, all’indifferenza con l’azione. Al Palazzo di Giustizia, gremita di donne e uomini delle istituzioni, della cultura, del volontariato, si è respirata una volontà chiara e condivisa: fare della giustizia non solo un atto giudiziario, ma una presa di posizione umana

lunedì, 19 Maggio 2025 - 10:17
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