Un’intrusione digitale nella vita dell’ex coniuge, anche per raccogliere prove da usare in una causa di separazione, non può essere tollerata. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19421/2025, ha ribadito la gravità della condotta, stabilendo che la raccolta di prove da dispositivi altrui senza consenso costituisce il reato di accesso abusivo a sistema informatico punibile con pene che possono arrivare fino a dieci anni di carcere. Il pronunciamento della Suprema Corte è giunto a seguito del ricorso di un uomo condannato dalla Corte d’Appello di Messina. L’imputato aveva estratto chat WhatsApp e registri di chiamate dai telefoni della ex moglie – uno dei quali ancora in uso alla donna, l’altro utilizzato per lavoro e scomparso da tempo – consegnando il materiale al proprio avvocato per produrlo in giudizio, al fine di ottenere l’addebito della separazione.
Le denunce, risalenti a marzo 2022 e marzo 2023, evidenziavano condotte moleste e ossessive da parte dell’uomo, accusato anche di aver inviato messaggi privati a terzi, inclusi i genitori della donna, per insinuare l’esistenza di una relazione con un collega. La Cassazione ha chiarito che messaggi e chiamate custoditi nei dispositivi sono tutelati come parte integrante della sfera privata e riservata della persona. Le applicazioni come WhatsApp, inoltre, sono considerate a tutti gli effetti sistemi informatici, trattandosi di software che elaborano e trasmettono dati attraverso reti digitali. Per i giudici, l’uomo ha «arbitrariamente invaso la sfera di riservatezza della moglie attraverso l’intrusione in un sistema applicativo» che dovrebbe essere riservato al solo proprietario del mezzo, salvo consenso. La Cassazione ha precisato che un eventuale consenso temporaneo all’uso del telefono non elimina la responsabilità penale qualora vengano superati i limiti fissati dal proprietario del dispositivo. Chi mantiene l’accesso o consulta dati non autorizzati commette comunque un illecito.
Il presidente nazionale dell’Associazione Avvocati Matrimonialisti Italiani, l’avvocato Gian Ettore Gassani, ha così commentato la sentenza: «Spiare le chat su WhatsApp è vietato». Lo ha deciso la Corte di Cassazione che parla di «accesso abusivo a sistema informatico», chi lo fa rischia fino a dieci anni di carcere». L’avvocato Gassani ha sottolineato l’importanza di questo segnale: «Era necessario un forte e preciso segnale della Cassazione per sancire definitivamente che il diritto alla riservatezza è prioritario e inviolabile (salvo i casi stabiliti dalla legge), e che esistono altro sistemi per indagare le condotte del coniuge come le investigazioni private». Gassani ha inoltre ricordato che il codice penale già prevede pene fino a tre anni di reclusione per l’accesso indebito nella messaggistica altrui e la diffusione non autorizzata di contenuti acquisiti illegalmente (art. 615 ter c.p.). «Finalmente si fa chiarezza su una questione che aveva diviso gli addetti ai lavori in diritto di famiglia. Da oggi in poi non si potranno più depositare in tribunale le chat segrete del coniuge», ha concluso Gassani.
giovedì, 5 Giugno 2025 - 17:45
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