Omicidio del boss e dell’innocente Colonna, i ruoli di Rinaldi e delle ‘pazzignane’: le accuse della Dda

Procura Napoli
di Manuela Galletta

L’articolo pubblicato nell’edizione di stamattina del quotidiano in edizione digitale sugli arresti per l’omicidio del boss Raffaele Cepparulo e dell’innocente Ciro Colonna

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Quando i killer aprirono il fuoco contro il boss Raffaele Cepparulo uccidendo lui e l’innocente Ciro Colonna, i sospetti caddero inevitabilmente sul clan Vastarella. Caddero su quella famiglia criminale della Sanità che pochi mesi prima aveva pianto due dei loro esponenti con la strage di via Fontanelle (due morti e tre feriti). Era il 22 aprile 2016 e nel rione era scoppiata la guerra tra gli storici Vastarella e gli Esposito-Genidoni, soprannominati i ‘barbudos’ per via di quella barba folta e lunga che i suoi esponenti s’erano fatti crescere come segno criminale di appartenenza. Alla Sanità ci fu una carneficina. Il mese dopo i Vastarella risposero ammazzando il padre e il fratello di uno dei killer dei ‘barbudos’: una vendetta trasversale. Ecco perché, il 7 giugno del 2016, non appena gli investigatori si resero conto che nel circoletto del Lotto 0 a Ponticelli era stato ucciso Raffaele Cepparulo alias ‘Ultimo’, la prima ipotesi fu quella dei Vastarella. Ma alla fine la pista della cosca della Sanità s’è rivelata errata. Ché ad uccidere Cepparulo e l’innocente Ciro Colonna sono stati i Rinaldi e i ‘pazzignani’, gente che ha nelle vene il sangue criminale dei Sarno di Ponticelli. I carabinieri del nucleo investigativo di Napoli, ieri mattina, hanno eseguito otto ordinanze di custodia cautelare che restituiscono uno scenario da dynasty malavitoso. L’ordine di morte – recita l’atto d’accusa confezionato dal pubblico ministero antimafia Antonella Fratello e vagliato dal giudice per le indagini preliminari Francesca Ferrigno – è partito dal boss di San Giovanni Ciro Rinaldi detto ‘My Way’ e dal 28enne Michele Minichini, noto negli ambienti malavitosi per le sue parentele.  Ed è stato eseguito da Minichini e da Antonio Riviaccio soprannominato ‘Cocò’. Minichini è figlio di quel Ciro che ha fatto incetta di condanne (anche all’ergastolo) per una sfilza di omicidi commessi quando militava, insieme al cognato Antonio De Luca Bossa ‘o sica) nella cosca dei Sarno; ed è il fratello di Antonio Minichini (figlio di Ciro e della reginetta del Lotto 0 Anna De Luca Bossa), ucciso dai killer del clan De Micco nel gennaio del 2013 insieme a Gennaro Castaldi (vero obiettivo del raid). Una strada segnata, quella di Michele. Che non ha mai smesso di rivendicare con fierezza la storia della sua famiglia, tanto da farsi tatuare alla base della nuca il suo cognome. Un’usanza che in famiglia si porta molto. Basti pensare che Cristian Marfella, figlio di Teresa De Luca Bossa di cui Michele Minichini è nipote, teneva ben due tatuaggi, uno sul collo e l’altro alla gola: uno con su scritto Antonio ‘o sica (il nome del fratello ergastolano) e l’altro ‘camorra’. Camorra, appunto. La strada che Michele Minichini ha intrapreso. La strada che l’ha condotto dritto in galera. E che ha rischiato di condurlo, prima ancora che in carcere, nella bara. Sì, perché a leggere il movente dell’omicidio di Raffaele Cepparulo emerge con chiarezza che quello del boss ‘Ultimo’ è stato un delitto preventivo: nei Rinaldi e nei ‘pazzignani’ s’era diffuso il convincimento che Raffaele Cepparulo, riparato a Ponticelli proprio per sfuggire alla vendetta dei Vastarella, si fosse alleato ai Mazzarella, da sempre acerrimi nemici dei Rinaldi, e che per compiacere i nuovi ‘amici’, stesse organizzando l’omicidio di Michele Minichini. Cepparulo chiedeva spesso informazioni sul conto del 28enne. E, come se non bastasse, poche settimane prima del raid nel circoletto al Lotto 0 s’erano verificare diverse ‘stese’ sotto le abitazioni di Minchini e di Ciro Rinaldi. Di qui la decisione di ucciderlo. Una decisione che chiama in causa altre sei persone, pure raggiunte da ordinanza di custodia cautelare in carcere: il provvedimento è stato notificato alla già detenuta Anna De Luca Bossa (che finì in cella una decina di giorni dopo l’agguato per via di una storia di droga in concorso con i D’Amico del Conocal); a Vincenza Maione e alla cugina Luisa De Stefano; a Giulio Ceglie, di 32 anni; a Cira Cepollaro. Quasi tutte donne, quelle arrestate. Quasi tutte con una storia alle spalle. Se di Anna De Luca Bossa si sa già tutto, di Luisa De Stefano si ricordano i trascorsi, lontani un secolo, da spacciatrice al soldo dell’ormai estinto clan Sarno. Più interessante, invece, il profilo di Vincenza Maione: la donna è sposata con Roberto Schisa, un secolo fa esponente di spicco dei Sarno, cosca dalla quale ha preso le distanze quando un paio di anni fa è tornato in libertà, dopo aver scansato i sospetti di aver contribuito all’uccisione del fratello Giuseppe che i Sarno ritenevano in odore di pentimento. Non è tutto: Vincenza Maione è anche la madre di Tommaso Schisa, condannato per il concorso nell’omicidio del 27enne Umberto Improta, un bravo ragazzo rimasto colpito a morte da una pallottola vagante mentre si trovava sull’uscio del ‘Caffè del Presidente’ a San Giorgio a Cremano. Schisa, che all’epoca era minorenne, faceva parte di uno dei due gruppi opposti gruppi di giovanissimi che regolarono i loro conti in strada: uno dei componenti della sua ‘cerchia’ aprì il fuoco, ammazzando per sbaglio Umberto.

martedì, 27 Marzo 2018 - 17:57
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