«Mi sono dimesso da tutto», dice. Cosa vera, sulla carta. Eppure nel salotto televisivo di ‘Che tempo che fa’ di domenica sera, Matteo Renzi parla ancora come se il segretario del Partito democratico fosse lui, provocando così le ire delle correnti interne ai ‘dem’ che, all’ex premier fiorentino, non hanno mai smesso di fare la guerra già all’indomani della Caporetto del Referendum di dicembre 2016 che suonò la sveglia della scollatura tra il Pd e quello che, sino a quel momento, era il suo nutrito elettorato, scenario da disastro elettorale che il 4 marzo si sarebbe compiuto. «Siamo seri, chi ha perso le elezioni non può stare al Governo. Il Pd ha perso. Sette italiani su 10 hanno votato per i Cinque Stelle o per Salvini. Noi non possiamo con un gioco di palazzo entrare dalla finestra dopo che gli italiani ci hanno fatto uscire dalla porta. Non possiamo pensare dalla mattina alla sera che i giochetti dei caminetti romani valgano più del voto degli italiani», commenta Renzi quasi tutto d’un fiato. Quella dell’ex premier è una posizione netta di chiusura ai Cinque Stelle, che da settimane inseguono il Pd nella speranza di un accordo di Governo che consenta a Luigi Di Maio, nei sogni a cinque stelle, di salire a Palazzo Chigi. Ma al tempo stesso è una posizione di rigore verso ciò che sta accadendo all’interno del suo stesso partito dove una parte dei politici preme con forza affinché i ‘dem’ si siedano al tavolo dei grillini finendo con il dargli appoggio e tornando così al Governo benché le urne li abbiano bocciati. Renzi punta i piedi, insiste sul rispetto del voto degli italiani («Cosa deve pensare chi ci guarda da casa se facciamo il Governo coi Cinque Stelle? Non possiamo prendere in giro gli italiani»), ma soprattutto, anche se velatamente, accusa chi accarezza il sogno dell’alleanza di ‘tradire’ i programmi del Pd, inclusi quelli attuati, e soprattutto di aver scavato il terreno per consentire al suo Pd di perdere le elezioni consegnando l’Italia in mano a grillini e Lega. «Da segretario del partito sono stato massacrato per cinque anni: avevo l’opposizione interna, che si preoccupava di massacrare me e non i Cinque Stelle o Salvini. A furia di massacrare me è arrivato Salvini», dice sul finire dell’intervista. Finendo poi con l’avvisare i piddini che guardano a Di Maio che, almeno al Senato, i parlamentari stanno dalla sua parte: «Per fare il Governo, i Cinque Stelle hanno bisogno di 161 senatori. Loro ne hanno 152. Hanno dunque bisogno che in 48 votino per la fiducia. Ora noi di senatori ne abbiamo 52. Io su 52 non ne conosco uno che possa votare a favore. Puoddarsi che cambino le cose, ma la vedo improbabile». Affermazione da prova di forza. E la bufera, interna, è presto servita. Tanto per cambiare. Soprattutto perché l’intervista di Renzi e il suo parlare da leader arrivano a 48 ore di distanza da un appuntamento cruciale per il Partito democratico: la Direzione nazionale, la ‘riunione’ in cui i vertici dei ‘dem’ dovrebbero decidere la strada politica da seguire. Si infuria Dario Franceschini, che invoca la resa dei conti: «E’ arrivato nel Pd il tempo di fare chiarezza. Dalle sue dimissioni Renzi si è trasformato in un Signorno’, disertando ogni discussione collegiale e smontando quello che il suo partito stava cercando di costruire. Un vero leader rispetta una comunità anche quando non la guida più». Gli fa eco il napoletano Marco Sarracino, portavoce dell’area di Andrea Orlando (quella più ostica a Renzi) che arriva ad invocare il Congresso affinché di designino in modo netto i quadri dirigenti considerando che, col suo discorso, Renzi ha dimostrato nei fatti di non tenere conto della linea politica dettata in questo momento dal segretario ad interim Maurizio Martina. «A questo punto davvero ignoro i motivi per i quali sia stata convocata la direzione nazionale di giovedì. Se è tutto già deciso, se la linea è quella emersa ieri sera su Rai uno, se le dimissioni di Renzi sono state un atto burocratico ma non politico, se ciò che conta non è il valore di una posizione ma la forza con la quale i fan la retweettano, allora forse è il caso che si vada quanto prima a congresso». La resa dei conti è invocata anche alla luce delle critiche che Renzi ha mosso a una fetta del Pd, nonché alla luce dell’analisi politica della sconfitta del 4 marzo con la quale sostanzialmente l’ex premier ha scaricato addosso ai ‘nemici interni’ le ragioni della debacle. «E’ inaccettabile “l’analisi della sconfitta” e della ricostruzione che ci viene sottoposta. È inaccettabile e falso dire che si è perso per colpa delle minoranze e del dibattito interno, è inaccettabile la narrazione di un paese in cui si vive meglio quando in realtà le disuguaglianze sono aumentate, è inaccettabile scaricare le colpe sul popolo che non c’ha capiti», si legge in un altro passaggio del lungo post. Dello stesso tenore è il post del napoletano Antonio Marciano, uomo di Maurizio Martina: «Con tutto il rispetto che si deve in particolare a chi è stato segretario del Partito, ma avendo scelto la via del silenzio per 2 mesi non poteva attendere altre 48 ore e tornare a parlare prima di tutto alla Direzione Nazionale? Stiamo parlando di uno dei passaggi più delicati per il Paese e per il PD ed anche lo stile gioca un ruolo decisivo».
martedì, 1 Maggio 2018 - 09:00
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