Caso Shalabayeva, condanne cancellate in Appello per i funzionari di Polizia e giudice di pace. Improta: «Ho perso 9 anni»

La polizia

Un verdetto di segno contrario a quello disposto in primo grado. Un verdetto che impone una rilettura dei fatti e apre la strada a un nuovo scontro in un’aula di giustizia, ma stavolta in Cassazione. Giovedì 9 giugno i giudici della Corte d’Appello di Perugia hanno mandato assolto tutti gli imputati del processo per l’espulsione, ritenuta illegittima dalla procura, di Alma Shalabayeva (moglie del dissidente kazako Mukthar Ablyazov) e di sua figlia Alua, avvenuta nel 2013. Una sentenza non facile, visto che sono state necessarie ben 10 ore di camera di consiglio.

L’assoluzione con la formula ‘perché il fatto non sussiste’ ha interessato l’ex capo della Squadra Mobile di Roma Renato Cortese, l’ex responsabile dell’ufficio immigrazione della Questura capitolina Maurizio Improta, i poliziotti Francesco Stampacchia, Luca Armeni, Vincenzo Tramma, Stefano Leoni e il giudice di pace Stefania Lavore. Tutti gli imputati erano in aula e molti di loro sono scoppiati a piangere subito dopo la lettura del dispositivo.

Un dispositivo che ha cancellato la sentenza di primo grado. «E’ una pagina di grande giustizia. Questa però è anche la conferma che questo processo non doveva proprio essere iniziato», ha commentato l’avvocato Ester Molinaro, che con il professor Franco Coppi ha difeso Renato Cortese. «Il fatto non sussiste significa che l’impianto accusatorio è stato completamente sradicato – ha aggiunto l’avvocato Molinaro – dimostrando che la procedura era corretta, anzi sicuramente, a questo punto, gli errori erano altrove e non nel capo della squadra mobile di Roma».

Andiamo con ordine ricostruendo le tappe più salienti della vicenda. Il 29 maggio del 2013 Alma Shalabayeva e la figlia vengono espulse dall’Italia: le due vengono prelevate dalla polizia dopo un’irruzione nella loro abitazione di Casalpalocco. Il blitz, in realtà, era finalizzato a trovare il marito della donna (il dissidente kazako Muktar Ablyazov, sospettato di attività terroristiche poi rivelatesi inesistenti), ma successivamente madre e figlia vengono messe Sun aereo privato messo a disposizione dalle autorità di Astana con l’accusa di passaporto falso. Il caso fa scalpore, cadono teste. Il capo di gabinetto del ministero dell’Interno Giuseppe Procaccini si dimette; il ministro dell’Interno Angelino Alfano diventa oggetto di una mozione di sfiducia poi respinta in Parlamento.

E, contestualmente, si apre un’inchiesta coordinata dalla procura di Perugia, che ipotizza un’espulsione illegittima configurando una serie di reati anche gravi come quello di sequestro di persona. Nel mirino dei pm finiscono quanti eseguirono l’irruzione in casa e il comando di espulsione. Si arriva al 14 ottobre 2020, il giorno della sentenza del processo di primo grado firmato dal Tribunale di Perugia (presidente Giuseppe Narducci). Il verdetto stabilisce che le modalità di rimpatrio di madre e figlia hanno integrato il reato di sequestro di persona e condannano gli imputati: 5 anni a Renato Cortese, ex capo della Mobile di Roma, già direttore del Servizio centrale operativo e questore a Palermo sino alla sentenza di primo grado; 5 anni a Maurizio Improta, ex responsabile dell’ufficio immigrazione della Questura capitolina e ora a capo della Polfer; 5 anni a testa ai funzionari della Mobile Luca Armeni e Francesco Stampacchia; 4 anni per Vincenzo Tramma; 3 anni e 6 mesi per Stefano Leoni. Condannato solo per falso il giudice di pace Stefania Lavore che si occupò del procedimento. Un verdetto pesante, contestato dagli imputati che rivendicano la correttezza del proprio operato.

Si arriva così al processo d’appello, che il 9 giugno volge al termine tra la felicità degli imputati e la delusione della procura generale che subito ha annunciato ricorso per Cassazione (sostenuta dai legali di parte civile). «Siamo molto interessati a leggere le motivazioni della sentenza perché ritenevamo che un abuso di potere ci fosse stato. Poi si poteva discutere se una ragione di Stato potesse giustificarlo. Ma secondo noi nessuna ragione di Stato può mai andare contro i diritti individuali della persona. Da come emerge dal dispositivo della sentenza sembra che i giudici ritengano invece non ci sia stata alcuna irregolarità», ha detto il procuratore generale di Perugia Sergio Sottani il giorno dopo la lettura del dispositivo.

E dallo sfondo riemerge con prepotenza il peso che stimati funzionari di polizia hanno portato sulle loro spalle: all’indomani della sentenza di condanna emessa in primo grado, sia Improta che Cortese sono stati sollevati dagli incarichi e trasferiti ad altro ufficio. Su di loro la macchia di una condotta che le alte sfere della Polizia, anche a causa del clamore mediatico, volevano punire. «E’ stata riconosciuta la regolarità della nostra attività e l’assenza assoluta di qualsivoglia iniziativa criminale. Penso a mia madre che ha 90 anni e che avrà un bel regalo, a mia moglie che proprio oggi compie gli anni, a mio nipote di sei mesi che almeno avrà un ricordo di un nonno perbene. Sono passati nove anni che nessuno mi restituirà e forse adesso potrò avere un po’ di serenità», ha commentato Improta.

sabato, 11 Giugno 2022 - 15:05
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