Rideva mentre la bruciava viva. Rideva nel sapere che, gettandole il liquido infiammabile in pieno volto, le avrebbe spento il sorriso, distrutto la vita. Che l’avrebbe fatta piombare nell’inferno in terra. Quel maledetto primo febbraio del 2016 Paolo Pietropaolo consumò senza pietà la sua vendetta contro Carla Caiazzo. La madre di sua figlia. La donna con la quale aveva convissuto prima che lei lo lasciasse per un altro.
Rideva. E nessun muscolo del suo corpo mostrò compassione per quella ragazza, bella come il sole, che all’epoca portava in grembo (era all’ottavo mese di gravidanza) il frutto della loro unione. Compassione, quella che Pietropaolo è tornato a chiedere per se stesso, ieri mattina, ai giudici della quinta sezione penale della Corte d’Appello di Napoli prima della pronuncia della sentenza. «Sono pentito», ha detto. E stavolta s’è guardato bene dal puntualizzare – come fatto in primo grado – di aver aggredito Carla perché in fondo lei l’aveva provocato, lasciandolo per un altro uomo. «Sono pentito», ha precisato, spiegando di aver abbracciato la fede del buddismo durante la sua detenzione, quasi a voler convincere i giudici della bontà del suo ravvedimento. Le sue parole – cariche di reale rimorso oppure no – non hanno però fatto breccia nella Corte, che dopo poche ore di camera di consiglio ha deliberato per una piena conferma della sentenza di primo grado. Nella forma e nella sostanza. Tradotto in numeri, Pietropaolo è stato condannato nuovamente a 18 anni di galera. Pena severissima alla luce del tipo di reato contestato (tentato omicidio) e soprattutto del percorso seguito dal processo: in primo grado l’imputato è stato giudicato col rito abbreviato, formula che prevede lo sconto di un terzo della pena; significa che i 18 anni inflitti sono equivalenti a una condanna piena a 27 anni, e 27 anni di galera per un’accusa di tentato omicidio si sono visti raramente. Nel caso di Carla Caiazzo i giudici hanno voluto usare il pugno duro, anticipando nei fatti la durezza sanzionatoria introdotta dal legislatore pochi mesi fa con il reato di omicidio di identità, reato che punisce le aggressioni che deturpano il corpo, il volto, che ti uccidono dentro pur lasciandoti in vita, come accaduto con Carla.
Diciotto anni di carcere, dunque. Diciotto anni per tentato omicidio, stalking e procurato aborto. Diciotto anni per aver rubato la vita a una donna. Per aver condannato Carla ad un calvario senza fine. Un calvario dell’anima e fisico. Ieri Carla non ha assistito alla sentenza: la scorsa settimana s’è operata di nuovo al viso. E’ il 53esimo intervento che affronta. Uno strazio. Al quale si aggiunge anche il dramma di non riuscire ad andare avanti. Le cure sono costose e Carla, per via della brutale aggressione subita, ha anche perso il lavoro.
mercoledì, 29 Novembre 2017 - 01:23
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