Processo al boss del clan Cesarano: vittima conferma le accuse in aula

Tribunale di Torre Annunziata
di Dario Striano

«Tu e tuo fratello siete dei maleducati. State a casa mia e vi siete comportati male. Domani dovete andare via da qui». Parole di chi esige rispetto, di i chi presume di avere il controllo del territorio. E’ così che un malavitoso stabiese avrebbe tentato di imporre il pizzo ad una ditta di Castellammare di Stabia. E non un malavitoso qualunque, bensì Vincenzo D’Apice, considerato dagli inquirenti il ras del clan Cesarano. ‘O bumbularo – all’epoca dei fatti contestati nel processo che lo vede imputato assieme al parente Luigi Cascone per estorsione con l’aggravante del metodo mafioso – era in permesso premio per una condanna per associazione a delinquere, omicidio e occultamento di cadavere – per cui fu arrestato nel 1999 dopo anni di latitanza – quando avrebbe tentato di imporre il pizzo.

La circostanza è emersa ieri mattina al tribunale di Torre Annunziata (presidente Federica De Maio) durante la testimonianza dell’amministratore dell’azienda, parte offesa del processo, chiamato a ricostruire dal pubblico ministero antimafia Claudio Siragusa quanto aveva già denunciato agli agenti della squadra mobile di Napoli nel giugno 2017. «I poliziotti – ha detto la vittima – mi chiesero se nei giorni prima mi fosse accaduto qualcosa di strano in ufficio. Ed io mi sono ricordato di un episodio avvenuto due giorni prima quando due persone si sono presentate in azienda per discutere di due assunzioni nella ditta». L’episodio raccontato dalla vittima sarebbe avvenuto a Castellammare quando due uomini, Luigi Cascone (difeso dall’avvocato Vincenzo Propenso) e Vincenzo D’Apice (difeso dall’avvocato Francesco Schettino), inchiodati anche dalla telecamere di sicurezza poste all’esterno della sede della società, si sarebbero lamentati per la mancata assunzione di due persone ‘suggerite’ al fratello e al padre del testimone. «Ho visto sopraggiungere in azienda dalla finestra del mio ufficio due uomini senza casco sul motorino – ha continuato il testimone – Non hanno voluto attendere che finisse la riunione che mi teneva impegnato. Sono entrati nella stanza e hanno fatto uscire la gente presente. Mi hanno detto che non gli interessavano più i posti di lavoro. Che non avrei dovuto aprire più». In tempi di crisi anche la camorra, stando all’accusa, avrebbe cambiato le modalità con cui chiedere il pizzo. Non più attraverso la richiesta di danaro, ma attraverso quella di posti di lavoro.

Durante la ricostruzione del racconto, l’imputato Vincenzo D’Apice, presente ieri mattina in tribunale, si è alzato in piedi, avvicinandosi al vetro della cella che lo divideva dalla parte offesa, sostenendo di non riuscire a sentire le parole del testimone, nonostante «la voce della presunta vittima fosse «alta e chiara», come ribadito dal presidente del Tribunale Federica De Maio. «Non conoscevo i due imputati di persona ma sapevo che D’Apice era stato in carcere per omicidio e che fosse un camorrista – ha detto l’amministratore – e immaginavo perché si fossero presentati in ufficio». Quello sarebbe stato l’unico episodio di estorsione subito dall’amministratore, sebbene già in passato alcuni suoi esercizi commerciali erano stati oggetto di attentati dinamitardi.

 

martedì, 13 Marzo 2018 - 21:32
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