Regeni, verso il processo a quattro 007 egiziani tra bugie e omissioni. Il silenzio della prof di Cambridge che espose Giulio

Giulio Regeni

Cosa è accaduto davvero a Giulio Regeni, il giovane ricercatore friuliano torturato e ucciso in Egitto nel febbraio del 2016?
A quasi cinque anni di distanza dall’omicidio e, nonostante la mancanza di collaborazione delle autorità egiziane, la procura della Repubblica di Roma ha disegnato un quadro accusatorio inquietante che tocca vertici della politica egiziana e che ha spinto il giornalista Corrado Augias a restituire alla Francia la Legion d’onore in segno di protesta dopo che il presidente francese Emmanuel Macron ha insignito dello stesso riconoscimento Abdel Fattah Al Sisi, il presidente di quell’Egitto che – scrive Augias – «si è reso oggettivamente complice di efferati criminali», ossia del delitto Regeni.
Andiamo con ordine mettendo insieme tutti gli ultimi tasselli di una storia che deve ancora emergere del tutto.

La procura di Roma ha chiuso l’inchiesta, in 4 verso il processo:
le accuse e i ruoli nei nove giorni di torture
La procura di Roma, nelle persone del procuratore capo Michele Prestipino e del pubblico ministero Sergio Colaiocco, hanno chiuso le indagini preliminari e sono, dunque, pronti a chiedere il rinvio a giudizio per gli indagati: sotto accusa ci sono quattro 007 egiziani (il generale Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif) ai quali sono contestati a vario titolo i reati di sequestro di persona pluriaggravato, concorso in lesioni personali e omicidio. Nello specifico il reato di omicidio è contestato a Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Per un quinto agente (Mahmoud Najem), invece, i pm hanno chiesto l’archiviazione.

I «quattro indagati – si legge nell’avviso di conclusione indagini – dopo aver osservato e controllato direttamente ed indirettamente, dall’autunno 2015 alla sera del 25 gennaio 2016, Giulio Regeni abusando delle loro qualità di pubblici ufficiali egiziani, lo bloccavano all’interno della metropolitana del Cairo e, dopo averlo condotto contro la sua volontà e al di fuori di ogni attività istituzionale, prima presso il commissariato di Dokki e successivamente presso un edificio a Lazougly, lo privavano della libertà personale per nove giorni». Nove giorni durante i quali Regeni è stato vittima di brutali torture che «hanno comportato l’indebolimento e la perdita permanente di più organi»: i suoi aguzzini utilizzarono coltelli, bastoni, mazze e altri strumenti taglienti, roventi. I quattro 007, incalza la procura, hanno causato a Regeni «acute sofferenze fisiche, in più occasioni ed a distanza di più giorni». Il corpo di Giulio fu poi ritrovato il 3 febbraio lungo la Desert Road che collega Il Cairo ad Alessandria.

Le testimonianze tra gli elementi di prova: «Giulio legato con catene di ferro, delirava»
Tra gli elementi di prova in mano agli inquirenti ci sono cinque testimoni che in momenti diversi hanno fornito tasselli fondamentali a chiudere l’indagine. Tra questi un uomo che lo vide, pochi giorni dopo il rapimento, in una delle sedi della National Security «dove Giulio è stato ucciso». Giulio era nella stanza 13, quella riservata agli stranieri, ha raccontato il teste, come riportato da Colaiocco: «C’erano catene di ferro con cui legavano le persone, lui era mezzo nudo e aveva sul torace segni di tortura e parlava in italiano. Delirava». Per la procura la chiusura indagini è un risultato importante, soprattutto considerata l’enorme difficoltà in cui gli inquirenti si sono imbattuti per ricostruire il caso: nel novembre del 2018 durante un incontro a Il Cairo gli inquirenti italiani annunciarono ai colleghi egiziani l’intenzione di iscrivere sul registro degli indagati gli agenti dei servizi, cosa che avvenne il 4 dicembre. Da quel momento i rapporti tra autorità giudiziarie si inasprirono ulteriormente e l’Egitto rimbalzò ogni ulteriore richiesta in arrivo dalla procura di Roma, compresi i tabulati telefonici legati al quinto indagato, quello per cui oggi si chiede l’archiviazione, e alle altre 13 persone presumibilmente coinvolte nella vicenda. «È un risultato particolarmente importante che non era scontato», ha sottolineato il procuratore capo Michele Prestipino audito nella commissione parlamentare d’inchiesta, insieme al pm Sergio Colaiocco. «Abbiamo tenuto fermo l’impegno di fare di tutto per accertare ogni responsabilità – ha aggiunto -. Lo dovevamo alla memoria di Giulio e all’essere magistrati di questa Repubblica». I magistrati ringraziano la “tenacia” della famiglia che da subito ha chiesto giustizia e collaborato in ogni modo con piazzale Clodio: «Decisiva – ha evidenziato il pm Colaiocco – è stata l’attività di indagine difensiva messa in atto dal legale della famiglia, Alessandra Ballerini».

Il ruolo di 13 persone non approfondito per via dell’ostruzionismo

Sotto i riflettori della magistrati ci sono anche altre 13 persone ma, come spiegato il pm Colaiocco in Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Regeni, «la mancata risposta ai nostri quesiti da parte delle autorità egiziane ci ha impedito di proseguire negli accertamenti».

Il tutor dell’Università di Cambridge e il suo inspiegabile silenzio: »Ho mandato un giovane ricercatore verso la sua morte»
Ma atteggiamenti ostruzionistici l’hanno avuto anche i docenti di riferimento di Giulio Regeni. «Rimane per noi un mistero l’atteggiamento della tutor di Giulio a Cambridge, la professoressa Haha Abdel Rahman – hanno dichiarato i due magistrati in Commissione – che non ha mai collaborato con le indagini e non ha più risposto dopo il primo contatto formale». Quella stessa docente, quattro giorni dopo il ritrovamento del corpo di Giulio, inviò una mail ad una collega canadese nella quale scriveva: «Ho mandato un giovane ricercatore verso la sua morte (…) Indicare alle persone come fare ricerca è qualcosa che, penso, sento di non dover fare più». Era il 7 febbraio 2016. La mail è stata recuperata dopo l’acquisizione del pc della docente tramite l’autorità giudiziaria britannica. Poche parole «rivelatrici — secondo il pm — non solo del rimorso della docente per la sorte toccata al suo ricercatore, ma anche della leggerezza che aveva caratterizzato la sua gestione del dottorando Regeni, soprattutto nella fase di invio sul campo».

Ma che c’entra con esattezza la professoressa Haha Abdel Rahman? La docente, come emerso dai dai estrapolati dal pc di Giulio, aveva suggerito a Regeni di focalizzare studi e ricerche in Egitto sul «ruolo dei lavoratori nella rivoluzione nell’era post-Mubarak», e in particolare sul ruolo dei sindacati autonomi, mentre lei ha affermato che fu un’iniziativa di Regeni. Inoltre la donna aveva suggerito a Regeni di chiudere un finanziamento alla ricerca di 10.000 sterline alla Fondazione inglese Antipode. «È un bando che Maha mi ha inviato un po’ di tempo fa», scrisse lo studente alla madre il 14 novembre 2015. Ma il ragazzo era contrario. Ad ogni modo Regeni condivise la possibilità di quel finanziamento anche con Mohamed Abdallah, leader del sindacato autonomo degli ambulanti. E quel sindacalista potrebbe averne fatto parola con qualcuno. Proprio i contatti con la Fondazione Antipode potrebbero avere esposto Giulio nei confronti delle autorità egiziane. Infine, vi è un altro episodio da non sottovalutare: l’11 dicembre 2015 Regeni partecipò a una riunione con oltre cento sindacalisti in cui si discuteva su come «arginare le manovre del governo Al Sisi tese a contrastare le sigle indipendenti».

C’erano Abdallah e una ragazza, coperta dal velo, che scattò una foto a Giulio. Regeni se ne accorse e si preoccupò molto, secondo la testimonianza del suo amico e collega Francesco De Lellis. Uno scenario a tinte fosche nelle quali si innesta la morte di Giulio che presto sarà oggetto di un processo.

lunedì, 14 Dicembre 2020 - 11:17
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