L’Anm Napoli stronca Nordio: «Da pm usava le intercettazioni ora le rinnega. Risorse alla Corte d’Appello o salta tutto»

di Gianmaria Roberti

In trincea, contro il guardasigilli Nordio, ma anche la legge Cartabia. Le riforme annunciate e quelle già operative, messe nel mirino, nella conferenza stampa dopo l’inaugurazione dell’anno giudiziario. La giunta distrettuale dell’Anm di Napoli non usa toni incendiari, ma la sostanza è dura. «Siamo operai della giustizia – dice Anna Laura Alfano, giudice penale a Napoli – abbiamo il dovere di far capire cosa funziona e cosa non funziona». E a sentire le toghe, diverse cose non vanno. Dapprima il neo ministro Nordio, i siluri contro gli ex colleghi, la crociata contro le intercettazioni.

«Riteniamo che sia stato politicamente grave l’instaurare da subito una sorta di antagonismo con i magistrati – sbotta il segretario della giunta distrettuale, Ida Teresi, pm della Dda di Napoli -, e in particolare con la funzione del pubblico ministero, cosa che non rientra nel disegno costituzionale. Questo danneggia il sentimento della collettività, che deve essere ispirato alla fiducia nelle istituzioni e nel fatto che si collabori, sicuramente pretendendo da tutti il rispetto delle regole, però se è vero che il ministero deve garantire in particolare quello che a noi manca, ci è sembrato un po’ strano cominciare con questo passo. E che a noi manchino risorse umane e materiali non è frutto di una lamentela infondata, perché i numeri parlano chiaro. Ad esempio, a Napoli abbiamo difficoltà a trovare collegi che si possano occupare dei maxi processi di camorra». E «peraltro sulle intercettazioni Nordio contraddice se stesso, perché da magistrato ne faceva ampio uso e ora invece le osteggia».

Il presidente della giunta, Diego Ragozini, (giudice civile a Napoli), rileva nel ministro «frasi a volte altalenanti, è passato dal negare completamente l’utilizzo delle intercettazioni poi si è corretto, ampliando ai reati spia». Sugli ascolti «crediamo che spesso si confondano i due piani – spiega Ragozini -: quello dell’abuso di pubblicazione di notizie acquisite nel corso delle indagini e il tema dell’utilizzo delle intercettazioni. L’Anm ha sempre ribadito che ci sono alcuni reati per i quali le intercettazioni sono indispensabili, l’unica risorsa probatoria: criminalità organizzata e reati contro la pubblica amministrazione. Ma la stessa criminalità organizzata si esprime attraverso corruzione e frode fiscale. Tra l’altro il tema dell’abuso della pubblicazione è stato già affrontato recentemente con la riforma Orlando, e quindi si interviene su un tema dopo una riforma alla quale non si è dato neanche il tempo di verificare in che termini lo scopo della limitazione, tra l’altro la pubblicazione si è limitata già di molto».

Cristina Curatoli, pubblico ministero a Napoli, rincara: «C’è un che di propagandistico nella proposta di riformare le intercettazioni, parliamo di uno strumento efficace e di un falso problema che finisce con l’ ostacolare le attività di indagine su reati cosi complessi». Anna Laura Alfano, giudice penale a Napoli, sottolinea: «Per le intercettazioni abbiamo una legge che funziona: il pm nella richiesta, il gip nella valutazione devono valutare la sussistenza dei gravi indizi, la necessità delle intercettazioni e per il trojan la necessità di quello strumento. È una legge che ha anche gli anticorpi per evitare che vengano pubblicate conversazioni che non siano di interesse o non abbiano una rilevanza penale per quel processo». Casomai «bisognerebbe chiedersi perché oggi non si fa funzionare quello che già funziona, e perché non si sono valutati gli strumenti per far funzionare il dibattimento penale, che oggi non funziona perché non è più possibile sostenere processi con un numero notevole di imputati».

Ma il nodo sembra un altro: l’idea, aleggiante in via Arenula, di una giustizia a compartimenti stagni. Dove le indagini per mafia sarebbero una galassia lontana dai fascicoli per tangenti e peculato. «Solo grazie alla individuazione di target di un certo tipo, cioè – ammonisce Teresi – il mondo dei professionisti, dei faccendieri, dei politici, siamo riusciti a costruire finalmente quello di cui tanti parlano, ma che è difficile accertare, ossia l’impresa mafiosa. La mafia d’impresa passa attraverso la “messa a disposizione” del sodalizio criminoso di figure professionali. E non è detto che sin dall’inizio questo sia chiaro, quindi non è detto che si possa intercettare dall’inizio per 416 bis, la norma che consente le intercettazioni più ampie. I reati di corruzione sono non solo gravi ma anche un attentato alla democrazia, ai beni pubblici e all’erario, ma non sono mai stati sufficientemente accertati, ci sono pochissime sentenze definitive, perché c’è un clima di omertà identico a quello della mafia».

Di fronte «a questo dato è ineludibile lo strumento delle intercettazioni, ma non da ora: fin dal post terremoto abbiamo visto il patto mafia-politica-impresa – argomenta il pm anticamorra-. Non ha senso logico-politico l’aver riconosciuto questo dato, quando nel 2019 con la legge Spazzacorrotti è stata ampliata la possibilità di fare intercettazioni, e svegliarsi dopo due anni come se non ci fosse questa realtà giudiziaria che abbiamo accertato. La mafia d’impresa è mafia che corrompe. Gli ultimi arresti che abbiamo fatto a Napoli, nei confronti di alcuni clan, questo hanno dimostrato: abbiamo arrestato anche i politici. E poi c’è il non rendersi conto che nel momento in cui c’è il Pnrr noi dobbiamo soprattutto evitare che i soldi vadano nelle mani sbagliate».

Ma da Nordio a Cartabia il passo è breve. «La riforma dell’ex guardasigilli – sostiene Curatoli – ha un grande vulnus: si trasforma in un’assenza della risposta di giustizia. Per cercare di snellire i procedimenti penali non si dà giustizia soprattutto alle vittime. Parliamo sempre del diritto di difesa degli indagati, ma non ci dobbiamo dimenticare che i fascicoli contengono soprattutto delle storie di vittime, che chiedono giustizia. A catena, questo si traduce anche in una perdita di fiducia nelle istituzioni, da parte del cittadino». Il problema? «La previsione di numerose fattispecie che adesso richiedono la querela come condizione di procedibilità, responsabilizza le vittime su qualcosa che a loro non deve essere richiesto, perché l’autorità giudiziaria deve attivarsi su sua iniziativa, non su richiesta di qualcuno dal quale, molto spesso, non si può esigere un comportamento attivo».

Valerio Riello, giudice penale a Santa Maria Capua Vetere, scorge un controsenso: «Da una parte si dovrebbero incentivare i riti alternativi, dall’altra si prevede la prescrizione o l’improcedibilità. È chiaro che un sistema del genere non può che essere un po’ incoerente con le finalità che hanno mosso tutti gli interventi di riforma. Si dice che bisogna arrivare a sentenza in tempi ragionevoli, però poi non si mettono a disposizione dei magistrati gli strumenti adeguati allo scopo». L’improcedibilità – che incenerisce il processo penale se supera i due anni in appello e l’uno in Cassazione – «è l’esempio lampante di come possa essere l’interesse da parte dell’indagato o dell’imputato a non accedere a riti alternativi, perché in un distretto come il nostro c’è una carenza drammatica di personale giudiziario e amministrativo, e il timer che viene inserito in un processo fa sì che ci sia una speranza molto ragionevole che poi questo processo, a un certo punto, finisca. Buttando a mare tutto quello che è accaduto fino a un momento prima. Se prima dell’improcedibilità si arrivava in affanno al traguardo, adesso il rischio è che non ci si arrivi proprio».

La legge Cartabia, però, preoccupa anche su altri fronti. «Da giudice del dibattimento – racconta Giusi Piscitelli, giudice penale a Nola – ho riflettuto molto sull’efficacia dell’udienza predibattimentale, un filtro che già abbiamo sperimentato con l’udienza preliminare, ora introdotto per i processi monocratici a citazione diretta, che non sono poca cosa per il carico di lavoro di ciascun magistrato. Ritengo che il fine di incentivare i riti alternativi sia alto, temo però che la contemporanea introduzione della improcedibilità, con eliminazione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, possa remare contro all’efficacia». Piuttosto, «bisognava intervenire per rendere il dibattimento molto più veloce, perché i riti alternativi sono una scelta difensiva, e in una strategia difensiva rientra – per chi ha la possibilità di permettersi il pagamento di avvocati fino all’ultimo grado di giudizio – il preferire di arrivare all’improcedibilità piuttosto che essere giudicati col rito alternativo».

E sullo sfondo ci sono ulteriori considerazioni. «Queste riforme, partendo dal Pnrr – afferma Pina D’Inverno, giudice civile a Nola -, hanno il mito dell’efficienza, cui bisogna rispondere con strumenti materiali. Faccio un esempio: il mio presidente di Corte d’appello, da poco arrivato in quinta sezione civile, ha impiegato due mesi per avere la funzionalità della consolle. Ha dovuto pagare lui la smart card per far funzionare il sistema consolle. Partiamo innanzitutto dalla ridefinizione delle piante organiche: in appello si muore se non si interviene con una ridefinizione delle piante organiche, l’intero sistema giustizia collassa. Il nostro sistema si fonda su tre gradi di giurisdizione, se non potenziamo il grado di appello non si va da nessuna parte». E il rischio è proprio quello.

sabato, 28 Gennaio 2023 - 22:03
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