Uccise la compagna strangolandola, condannato a 23 anni. Il padre della vittima: «Meritava di più»

giudice martello

Le strinse le mani al collo e la guardò morire soffocata. Era il settembre dello scorso ano quando a Pozzo D’Adda, in provincia di Milano, l’operaio Carmelo Fiore uccideva la sua compagna Charlotte Yapi Akassi, 26 anni e due figli piccoli. Questo pomeriggio Carmelo Fiore è stato condannato alla pena di 23 anni all’esito del processo che si è definito dinanzi ai giudici della Corte d’Assise di Milano (presidente Ilio Mannucci Pacini). Il processo si è svolto a porte chiuse. Accolta in sostanza la proposta del pm Maura Ripamonti che in aveva chiesto 22 anni ritenendo le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti dei futili motivi e del vincolo della relazione affettiva.

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Le attenuanti sono state concesse alla luce del comportamento processuale tenuto dall’imputato (Fiore aveva confessato subito dopo il delitto) e della decisione di offrire 10 mila euro a ciascuno dei due figli della 26enne a titolo di acconto risarcitorio (la somma è stata già versata). I giudici hanno, inoltre, disposto l’interdizione perpetua nei confronti dell’imputato, la libertà vigilata di 3 anni a pena espiata e una provvisionale per i due figli, l’ex marito e i familiari della giovane per una somma totale di 290 mila euro. Deluso il padre di Charlotte: «La pena è troppo bassa, meritava di più».«Dobbiamo rispettare la decisione della Corte, anche se abbiamo sostenuto non ci fosse il margine per concedere l’equivalenza delle attenuanti alle aggravanti», hanno commentato gli avvocati dei familiari, Antonio Cozza e Maria Fufaro.

Carmelo Fiore confessò di avere aggredito Charlotte, originaria della Costa d’Avorio, durante un ennesimo litigio: «Mi ha deriso» aveva detto alla ex moglie a cui aveva telefonato subito dopo l’omicidio per dare l’allarme. Poi a processo aveva spiegato la dinamica dell’aggressione: «Ho iniziato a picchiarla, ero stanco di tutto. Le ho messo le mani al collo e ho chiuso gli occhi. Poi ho cominciato a stringere, siamo caduti per terra, ma io non riuscivo a lasciare la presa, stringevo, stringevo forte. L’ho lasciata solo quando ho capito che non si muoveva più». Dopo il delitto, il 46enne si era provocato una ferita al petto con un coltello inscenando, secondo le indagini, un tentativo di suicidio. Per questo venne ricoverato all’ospedale di Bergamo da dove venne dimesso dopo poche ore. 

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lunedì, 18 Maggio 2020 - 17:05
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