Napoli, quei carabinieri che chiesero aiuto al boss dei Cutolo per recuperare i monili rubati alla madre di un collega

Carabinieri

Non solo Mario Cinque e Walter Intilla. La procura della Repubblica di Napoli, indagando sui ‘rapporti opachi’ con pezzi della criminalità organizzata, ha acceso i riflettori anche su altri carabinieri. Emerge dalle circa 70 pagine di ordinanza di custodia cautelare, a firma del gip Maria Laura Ciollaro del tribunale di Napoli, che ha spedito in carcere Cinque (in servizio a Bagnoli) e ai domiciliari Intilla (in servizio a Mondragone) per contestazioni diverse tra loro.

Tra gli indagati vi è anche il comandante della stazione di Procida, nei confronti del quale la procura di Napoli aveva proposto gli arresti domiciliari contestando il reato di ricettazione perché «al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, riceveva da Carra una borsa piena di braccialetti e monili vari, beni di provenienza delittuosa a lui nota in quanto provento del reato di esterno aggravata». Il fatto risale al gennaio del 2019.

La procura ha formulato anche un’altra contestazione ad esso collegato ma muovendola al pentito Gennaro Carra, al secolo esponente di vertice del clan Cutolo attivo a Fuorigrotta: estorsione. Tuttavia il gip ha deciso di non accogliere la richiesta cautelare della procura ritenendo errate le qualificazioni di reato formulate e, pertanto, non raggiunta la gravità indiziaria rispetto alle accuse mosse.

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Facciamo un passo indietro: il 6 gennaio del 2019 ai carabinieri di Procida viene sporta denuncia su un furto in abitazione. Poco dopo il carabiniere Mario Cinque, in servizio a Bagnoli, riceve una telefonata sul cellulare (messo sotto intercettazione) da un collega di Procida che gli chiede un aiuto sul caso: la vittima del furto era la madre di un collega e c’erano fondati sospetti che a commettere il reato fossero tre persone del rione Traiano, le stesse che – nell’ambito di un ordinario servizio di monitoraggio del territorio – erano state controllate a Procida poco prima del furto.

A Cinque, dunque, viene chiesto di coltivare una precisa pista investigativa ma anche di di contattare qualche ricettatore conosciuto per tentare di recuperare la refurtiva («Eeee non so se c’è qualche ricettatore qualcuno, io adesso non lo so.. io non lo so come lavorate la.. a me interessa recuperare questa roba o quanto meno avere filone… capito?»). Per cercare di recuperare la refurtiva, si muove anche Carannante, che contatta personalmente Cinque ma, al tempo stesso, si rivolge a Gennaro Carra. E Carra si attiva per rientrare in possesso della refurtiva: contatta un ricettatore, pretende il rinvenimento del maltolto e in un paio di ore riceve un borsello contenente dei bracciali e dei monili di provenienza furtiva che lui, a sua volta, fa recapitare a Carannante, riponendolo all’interno di una cassetta dell’Enel ubicata in un palazzo nel quartiere di Carra.

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L’episodio viene ricostruito dal pentito in questi termini: «Ricordo che mi fermarono in strada nel rione Traiano due carabinieri molto distinti, in borghese, i quali mi dissero che era stato fatto un furto nell’abitazione di un ufficiale al Monte di Procida… Mi dissero: ‘Si deve ritirare questa refurtiva, questa roba deve uscire, altrimenti vi girano come un calzino’. Devo precisare che spesso capitava che quando venivano rappresentanti delle forze dell’ordine a chiedermi il recupero di merce rubata, minacciavano sistematicamente vere e proprie rappresaglie ai danni miei e del mio gruppo». Il borsello consegnato dal ricettatore viene prelevato, a dire di Carra, da Carannante e un altro carabiniere: «I militari, gli stessi che vennero da me il giorno precedente, ritornarono da lì a poco. Ricordo che in quei giorni andavano e venivano, anche perché facevano perquisizioni e controlli per tentare di rinvenire la refurtiva. Così quando vennero, penso erano passate al massimo un paio di ore da quando avevo avuto il borsello, dissi ai militari che la refurtiva era all’interno della cassetta dell’Enel che indicai, i militari la ritirarono». Ma è tutto inutile: i monili non sono quelli sottratti alla madre del carabiniere.

Alla ricostruzione di Carra la procura ha creduto senza esitazioni. Agli atti, infatti, vi sono pure una serie di intercettazioni tra carabinieri (Cinque e Carannante) sulla necessità di recuperare quella refurtiva che, nell’ottica accusatoria, fungono da riscontro alle dichiarazioni del pentito. Vi è poi una conversazione chat su WhatsApp tra Cinque e una donna alla quale Cinque fa un resoconto di come è finita la storia: «E poi abbiamo battuto altre piste! Abbiamo trovato qualcosa ma no… la mamma non l’ha riconosciuto come oro suo». A ciò si aggiunga che del rinvenimento dei monili non vi è traccia negli atti ufficiali dell’Arma. Gli investigatori delegati dalla procura hanno infatti provato a rintracciare verbali di sequestro, verbali di perquisizione o altri atti sulla refurtiva rinvenuta l’8 gennaio 2019 ma non hanno trovato un solo documento: i controlli in questione sono stati espletati presso i carabinieri della compagnia di Bagnoli, il comando della stazione del rione Traiano e la stazione di Monte di Procida).

Che i fatti siano andati così, per il gip Ciollaro, non vi sono dubbi. Tuttavia il gip non si è trovato d’accordo con il pm rispetto alla qualificazione dei reati contestati al maresciallo Carannante e al pentito Gennaro Carro. Partiamo dall’accusa di estorsione attribuita a Carra perché questi aveva preteso la consegna della refurtiva con queste parole: «Non voglio sentire ragioni, deve uscire la refurtiva di questo ufficiale, altrimenti avrò problemi io e il mio gruppo criminale». Spiega il gip: «La frase pronunciata dal Carra non può essere in alcun modo interpretata come una minaccia diretta ai suoi due interlocutori: diverso sarebbe stato se l’attuale collaboratore di giustizia avesse prospettato di creare a loro problemi in caso di mancata consegna della refurtiva, ma a ben vedere egli aveva rappresentato solo le difficoltà che avrebbe verosimilmente incontrato il suo gruppo nei rapporti futuri con i carabinieri».

Piuttosto la richiesta di Carta si iscrive, a parere del gip, «nei rapporti di equilibrio e convivenza instaurati tra soggetti organici alla criminalità organizzata e criminali ‘comuni’, che di certo dovevano dar conto ai primi. In definitiva l’espressione riportata non potrebbe mai costituire quella minaccia prevista dalla norma incriminatrice quale elemento costitutivo del delitto di estorsione».

Quanto alla posizione del maresciallo Carannante, il gip ritiene improponibile l’accusa di ricettazione sia in ragione dell’esclusione dell’accusa di estorsione mossa a Carra, sia perché – pur ritenendo sussistente l’accusa di estorsione a Carra – a parere del gip manca «l’elemento del dolo specifico della fattispecie delittuosa; la ricezione del bene provento di reato deve infatti essere finalizzata a procurare a sé o ad altri un profitto, anche non economico».

«Nel caso di specie – incalza il gip – non si ravvisa tale finalità in capo al Carannante, che né risulta aver tenuto poi i preziosi per sé né aver mirato a trarre altra utilità in termini anche di lustro professionale dia un’indagine condotta del tutto sottotraccia. Diversamente opinando si rischierebbe di rendere astrattamente ipotizzabile il reato di ricettazione in capo a tutti gli operanti di polizia giudiziaria cui viene consegnata più o meno spontaneamente della refurtiva dai responsabili del furto; la finalità con cui agiscono è evidentemente quella di eliminare le conseguenze di un reato non quella di trarne profitto». Resta, tuttavia, ferma la convinzione – da parte del gip – di essersi trovati in presenza di «una tecnica investigativa decisamente poco ortodossa e volta a garantire una corsia preferenziale a un collega militare».

venerdì, 6 Agosto 2021 - 17:21
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