Bimbo travolto da youtuber, la psicologa Parsi: «Scuola e famiglie impreparate, giovani non distinguono tra web e realtà»

di Gianmaria Roberti

Ci sono tante, fin troppe considerazioni generazionali da fare, a margine della vicenda del piccolo Manuel, travolto e ucciso da un Suv su cui viaggiavano giovanissimi youtuber. Ed almeno «tre cose si possono dire» spiega la psicologa Maria Rita Parsi, volto noto della tv e autrice di oltre 100 libri. Uno dei quali – “Generazione H” – è l’epitome di una generazione di ragazzi esposti, sin dalla nascita, alla seduzione del web. «La prima cosa da dire – dichiara la psicoterapeuta – è il discorso della sfida, che però deve essere documentata per ottenere consenso, quindi followers, e guadagno. La dice lunga sulla mentalità terribile che per molti ragazzi è diventato il mondo virtuale. La sfida è prendere una macchina di lusso, la Lamborghini, che rinforza la visibilità dell’azione. La seconda è che poi riprendono questa cosa, senza freno alcuno a quello che possono dire e altri possono vedere collegandosi al loro sito. Terzo, vi è poi una dimensione di indifferenza rispetto a quello che possono causare facendo queste sfide. Perché le sfide, quelle vere, richiedono preparazione, richiedono considerazione dei danni che possono provenire a noi e agli altri, oltre che dei vantaggi che possono provenire a noi e agli altri».


Cioè?
«Un conto è una sfida che è espressione di una comunità educante ed educativa, e un conto è il resto. Perché questi signori avevano giò fatto altre sfide, l’altra sfida era stata guidare per un lungo percorso senza mettere le mani sul volante. Si tratta di sfide che prevedono certamente un rischio per sé, ma sicuramente un rischio per gli altri. Quindi gli altri non ci sono, come nel mondo virtuale».
In pratica c’è una percezione distorta dell’idea di sfida?
«C’è una sfida che tiene conto di quello che si può avere come risultato di consenso, di attenzione, di investimento pubblicitario. E non tiene minimamente conto se la faccenda è legale e può ledere, oltre a chi la fa, anche gli altri. E se addirittura sia veramente una sfida, perché le sfide sono anche costruttive, tengono conto anche della legalità. E questo, mi dispiace dirlo, non avviene più nel mondo virtuale. Nel mondo virtuale è permesso di fare quello che nel mondo reale non si può. Vuoi perché virtualmente si possono fare cose che fisicamente, se sei nel mondo reale, non puoi fare. Ma in più, utilizzando gli avatar, puoi cercare do alterare la realtà in maniera talmente profonda, che poi il senso della realtà lo perde. Diventa virtualità perversa e distruttiva, quindi non è più mezzo di comunicazione, contatto, informazione, diventa un luogo dove puoi avere un sito che ti insegna come suicidarti, come diventare anoressico, come usare le armi».


Ci faccia un esempio.
«Circa 5 anni fa andai in una trasmissione televisiva a commentare un pezzetto di una programma tv sudcoreano chiamato I can meet you, dove una madre, con sensori alle mani e occhialoni, abbracciava e parlava con l’avatar della sua bambina morta a sei anni di leucemia. Come direbbe Erich Fromm, il meccanismo più grave per vincere l’angoscia di morte, che è la madre di tutte le angosce umane, è diventata la struttura virtuale dove l’altro mondo l’abbiamo inventato, e dove ci sono gli immortali, e dove immortalare tutte le azioni, buone e cattive. Sono la proiezione del meglio e del peggio degli esseri umani, quindi vanno usati come test della condizione umana, ma vanno anche gestiti con tutto quello che noi abbiamo fatto per fare in modo che la condizione umana fosse rispettosa dei diritti dei bambini, dei diritti delle donne, dei diritti umani. Che fosse rispettosa della realtà reale delle notizie, della verità».

Ma perché a molti ragazzi di oggi sembra mancare il discernimento tra bene e male, giusto e sbagliato?
«Le prime due agenzie educative sono famiglia e scuola. In famiglia, dove ci sono genitori come quelli di questi ragazzi dello scontro in auto, che dicono “si sistema tutto, è una bravata” – perché pare che questa sia stata la dichiarazione, dopo che c’era un bambino morto e due feriti – hai dei modelli, ascolti dei discorsi. Le tue mappe cognitive si vanno riempiendo di quello che l’ambiente sociale, culturale, affettivo, spirituale, virtuale, ti suggerisce. Quindi tu alla fine sei il prodotto di un mix di fattori. Per cui, se questi ragazzi sono arrivati al punto di fare questo, devono interrogarsi la famiglia e la scuola, dove i segnali del comportamento di questi ragazzi non sono stati rilevati in alcun modo. Per questo la battaglia, col nostro presidente dell’ordine, Lazzari, è quella dello psicologo a scuola, altamente formato, che faccia da ponte tra genitori insegnanti, che rilevi attentamente, lavorando con loro, quali sono i segnali di disagio che si manifestano subito. Perché se questi ragazzi sono arrivati dove sono arrivati, se hanno potuto continuare a riprendere col telefonino dopo che era avvenuto lo scontro, con una Smart distrutta e delle persone a terra, significa che una percezione effettiva della realtà non ce l’avevano».


Cosa ci vede in quella scena?
«Si trattava di un gioco di supremazia, di un narcisismo maligno, che ti fa dire “io morirò, ma morirete tutti”. Quindi è un discorso che si devono porre la famiglia di questi ragazzi, la scuola, che crea la comunità, e educante, e poi noi che forniamo, anche attraverso i mezzi di comunicazione di massa, dei modelli di indifferenza, di qualunquismo, di bieca criminalità. Basta farsi un giro per vedere cosa viene mandato, per rendersi conto di che cosa, crescendo davanti ai telefonini e alla tv, che cosa possono sin dall’inizio assorbire questi ragazzini, come spugne, da quello che vedono».
Alla fine torniamo sempre al mondo virtuale.
«È la virtualità che va adeguata al meglio di quello che noi, lottando, abbiamo ottenuto nelle società democratiche. E la prevenzione è necessaria, come è necessaria la psicologia: formare i formatori, i genitori, gli insegnanti. Questi sono gli investimenti da fare, se vogliamo combattere una società che sarà sempre più virtuale e che ha già inventato l’altro mondo dove non si muore mai, dove la fantasia dell’immortalità è stata realizzata con gli avatar».

Nella società di oggi spesso ci troviamo di fronte a genitori che sembrano assenti.
«Come dice Tolstoj, ogni famiglia è felice perché lo è, e ogni famiglia è infelice a modo proprio. Queste sono famiglie che noi chiamiamo disfunzionali. Non avere la percezione della gravità di quello che i figli stanno facendo con il mondo virtuale, non saper controllare, è un fatto che riguarda naturalmente la famiglia come prima agenzia educativa».

Le chiedo un’ultima cosa, su cui gli esperti si arrovellano da anni: come mai i giovani esprimono un costante bisogno di approvazione attraverso le modalità dei social, la ricerca di un “like”, il numero di “followers”?
«Il consenso è quello che cerchiamo sempre intorno a noi. Il fatto di avere consenso e ascolto, se non lo trovi, se non senti che qualcuno si confronta con te, lo vai a cercare in gruppetti come le babygang, col bullismo a scuola o col cyberbullismo. Perché se hai un dolore, una rabbia profonda, una sensazione di impotenza, puoi direzionarla cercando aiuto e trovandolo, se sei fortunato. Se non lo trovi, la esprimi attraverso manifestazioni di violenza ed abuso. O in forme di ritiro sociale, o di malattie. Ma in mancanza di questa attenzione costante, di questo confronto con i genitori, di questa mancanza di guide, chi forma la guida? E poi c’è la questione dell’informazione».
Ineludibile.
«Se si guarda un telegiornale, soprattutto regionale, a essere generosi troviamo due buone notizie. Poi troviamo incidenti, furti, rapine, aggressioni, femminicidi, violenze. Chi viene informato, viene formato così fin dall’inizio della propria vita. Noi dobbiamo arrivare ad un punto di valutazione attuale che non può esimere la scuola da materie come educazione sessuale, educazione all’uso virtuoso del virtuale. Bisogna cambiare, e ci vogliono persone altamente competenti che diano linee guida. È chiaro che le famiglie disfunzionali sono quelle che poi danno luogo a comportamenti disfunzionali dei ragazzi che si dovrebbero cogliere dall’inizio, prima di arrivare alla tragedia. E non li puoi certo cogliere nelle famiglie disfunzionali, ma a scuola e nei luoghi di aggregazione sociale».

sabato, 17 Giugno 2023 - 16:41
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