La scossa di Zingaretti fa tremare Pd e Governo. Cinque Stelle spiazzati, Conte prova a rilanciare l’intesa Dem-Movimento

La foto 'storica' scattata nell'ottobre del 2019, in occasione delle elezioni in Umbria. Fonte foto: pagina Fb Partito democratico

Il rischio legato alle dimissioni improvvise del segretario Dem Nicola Zingaretti è quello di innescare una reazione a catena oltre che nel suo partito, nell’attuale Governo. Zingaretti da capo del Pd ha traghettato il partito dall’opposizione alla maggioranza giallorossa fino all’esecutivo di unità nazionale con Salvini e Berlusconi; è stato l’artefice, tra applausi e mugugni della base, della alleanza con i Cinque Stelle che si vuole rinsaldare e rendere sistematica anche a livello locale. E’ l’uomo che ha retto i Democratici negli ultimi due anni, l’ultimo dei quali con l’emergenza Coronavirus che spazzava via crisi, rinforzava la leadership di Giuseppe Conte, rendeva possibile l’impossibile – come appunto l’alleanza con il M5s – e poi faceva nascere un’altra crisi conclusasi con la nascita del Governo a guida Draghi. Zingaretti è stato l’uomo della foto di gruppo, contestatissima, con Conte e Di Maio: era l’ottobre del 2019, la preistoria se la si guarda con gli occhi di oggi, e mentre molti rinnegavano la scelta di allearsi con i ragazzi del Vaffa gridato anche contro il Pd, l’ex segretario del Pd si mostrava pacioccone e sorridente al fianco dei meno convinti alleati. Alla fine, quelle elezioni, le ha vinte la Lega.

Zingaretti è stato anche colui il quale ha reso forte la leadership dello sconosciuto professor Conte, riconoscendogli pubblicamente grandi doti e facendo storcere il naso ai suoi per la non richiesta e ingenua genuflessione all’uomo che tra qualche giorno diventerà capo politico del Movimento Cinque Stelle. Lo stesso che, però, tocca dirlo, è stato tra i primi che ha commentato pubblicamente le dimissioni di Zingaretti con un post più che strategico, perché lascia comprendere quale sarà la linea del leader pentastellato da oggi in poi: restare accanto ai Dem e non svilire i tentativi di un patto trasversale che in Senato si è cementato con la nascita di un gruppo interpartitico Pd-M5s-Leu.

«Le dimissioni di Nicola Zingaretti non mi lasciano indifferente – ha commentato l’ex premier –  Seguo con rispetto e non intendo commentare le dinamiche di vita interna del Partito Democratico. Ma rimango dispiaciuto per questa decisione, evidentemente sofferta.  Non avevo avuto occasione, prima della formazione del governo precedente, di conoscerlo. Successivamente, ho avuto la possibilità di confrontarmi con lui molto spesso, in particolare dopo lo scoppio della pandemia. Ho così conosciuto e apprezzato un leader solido e leale, che è riuscito a condividere, anche nei passaggi più critici, la visione del bene superiore della collettività». I giornali raccontano che i due si sono anche sentiti a telefono. Ma anche altri leader hanno voluto commentare la scelta del segretario. Luigi Di Maio e Vito Crimi, persino Salvini della Lega, tutti hanno espresso anche il timore che la mossa dell’attuale presidente della Regione Lazio costituisca alla fine anche una mina per il Governo.

I Democratici invece, colti alla sprovvista evidentemente, hanno lasciato trascorrere qualche ora prima di sibilare una risposta. La prima muscolare, che ha chiesto che l’Assemblea respinga le dimissioni di Zingaretti, così da sconfiggere le minoranze interne (così Virginio Merola, Francesco Boccia, Giuseppe Provenzano, Monica Cirinnà, Enrico Rossi, ecc); la seconda timorosa di ripercussioni sulla tenuta del Partito e del governo che ha chiesto allo stesso Zingaretti di ritirare le dimissioni.

Tra questi ultimi i ministri Dario Franceschini e Andrea Orlando, che sostengono il segretario all’interno del Partito, e il titolare della Difesa, Lorenzo Guerini, leader di Base Riformista; e con loro il capogruppo alla Camera Graziano Delrio e ancora, tra i tanti, Debora Serracchiani, Marina Sereni, Andrea De Maria, Matteo Mauri, Anna Rossomando. Il loro auspicio è di trovare un’intesa all’Assemblea per decidere insieme un percorso che porti a un congresso tematico in autunno, senza rimettere in discussione la guida del Partito. Un passaggio questo necessario come hanno spiegato lo “zingarettiano” Marco Paciotti e Antonio Misiani, dell’area di Orlando: il primo ha sottolineato che vanno “sciolti i nodi politici” all’interno del partito, e il secondo ha insistito su un “vero e proprio percorso costituente” che ridefinisca l’identità del Pd e la sua proposta per il Paese. Una Costituente che anche Giorgio Tonini ha rilanciato. Il resto di Area Riformista resta contrariata nel timore che la mossa del segretario possa bloccare il congresso e anche la riflessione sulla identità del Pd. La domanda che ha rimbalzato in Transatlantico e nelle chat è se Zingaretti sia o meno disposto a ritirare le dimissioni, evitando il redde rationem con le minoranze. Al di là dell’amarezza sul piano personale, anche i più vicini al segretario non si sbilanciano: «La decisione di Nicola Zingaretti mi addolora – ha detto Goffredo Bettini -. Ne comprendo le ragioni. Spero ci sia lo spazio per un ripensamento. Il Pd ha bisogno della sua onestà, passione e intelligenza politica».

venerdì, 5 Marzo 2021 - 10:54
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