La nemesi mediatico-giustizialista di Bonafede: dal sospetto velenoso al linciaggio politico, il ‘processo’ si fa in tv

Alfonso Bonafede
di Manuela Galletta

È una nemesi mediatico-giustizialista, col processo sommario che si consuma in pubblica ‘arena’ e senza contradditorio, quella che tocca oggi al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede dopo il siluro lanciato nei suoi confronti dal magistrato Nino Di Matteo. Al malcapitato sospettato, che si affanna a chiamare in diretta tv per difendere a caldo il suo onore ma fatica a trovare le parole talmente è inimmaginabile ciò che gli è piovuto addosso, viene dapprima negato a più riprese di concludere il ragionamento inseguito per cercare di replicare, ché il contraddittorio è un inutile orpello, e poi viene addossato quell’onere della prova invertito, in base al quale non è l’accusatore a dover provare i fatti ma è l’accusato a dovere provare l’infondatezza dei fatti generici e fumosi che gli sono stati contestati.

L’“imputato” è solo, abbandonato nella tempesta dei sospetti di avere ceduto a inconfessabili pressioni da parte dei boss mafiosi e quindi di avere impedito a un paladino dell’antimafia di guidare il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Persino gli amici più cari lo guardano con imbarazzo: tacciono per quasi 24 ore di fila prima di mettere in croce una (sintetica) dichiarazione in difesa dell’onore di un uomo demolito con poche micidiali parole in un processo in tv. Poco importa se i fatti sono risalenti nel tempo. Poco importa se l’accusa ne fosse a conoscenza già da due anni ma abbia scelto, chissà perché, di tenere l’incartamento nel cassetto e di tirarlo fuori solo ora. Ciò che conta in questo avvilente show è che a puntare l’indice sia un magistrato, per lo più ‘antimafia’ e dunque meritevole di un credito e di una credibilità incondizionata per il solo ruolo ricoperto. Se poi il magistrato se la prende col potente di turno, addirittura un ministro che per paradosso – unitamente a tutto il suo schieramento politico – aveva portato al trionfo quella ‘toga’, allora diventa opinione presto generalizzata che qualcosa di fondato vi sia, altrimenti – è il ragionamento semplicistico – non si sarebbe attaccata una personalità di rilievo e per di più ‘amica’.

L’ingranaggio del processo di piazza inizia a girare veloce, il velenoso sospetto – che come disse padre Pintacuda è l’anticamera della verità – si fa largo e con esso il linciaggio politico che non tarda mai arrivare, dimostrando ancora una volta come il garantismo tanto sbandierato da destra e sinistra non sia un nobile principio dello stato di diritto da maneggiare con cura ma un’arma di difesa da estrarre in base ad una strumentale e svilente logica di appartenenza dell’accusato di turno. Ne viene fuori un virtuale talk show di quart’ordine dove chi interviene si cimenta nello sport di lanciare, il più forte possibile, la pietra contro lo sventurato di turno senza andare mai al centro della questione, legittimando e facendo apparire come verità assoluta una storia che invece presenta più di un interrogativo dirimente. Di Matteo dovrebbe, anzitutto, spiegare perché ha atteso due anni prima di rendere nota una storia che a suo dire «i cittadini hanno diritto di sapere». Non è questione da poco: Di Matteo è un magistrato e ben conosce l’importanza della denuncia. Oggi insinua, con l’accostamento sapiente di alcuni fatti, che all’epoca Bonafede si sia piegato ai ricatti della mafia, eppure col suo silenzio – e seguendo la logica del suo ragionamento – ha lasciato aperta la possibilità che per quasi 24 mesi il Guardasigilli perseverasse in chissà quale ignobile baratto. Anni fa, ad Ercolano (in provincia di Napoli), una schiera di commercianti taglieggiati dalla camorra si ritrovò sotto processo per non avere denunciato gli estorsori: si assumeva che col loro silenzio i commercianti avessero in qualche modo aiutato la camorra. Di Matteo, dunque, dovrebbe spiegare il perché di quel silenzio che appare imperdonabile.

Così come è imperdonabile il silenzio del Csm, che dovrebbe prendere posizione, in un senso o nell’altro: Di Matteo non è un magistrato qualunque, è prima di ogni cosa componente del Csm e con le sue dichiarazioni ha configurato uno scontro istituzionale. E’ su questo che ci si dovrebbe soffermare, prima di scivolare in qualsivoglia dietrologia. Ma il processo mediatico fondato sul sospetto ha altre regole. La regola invertita della colpevolezza, senza se e senza ma, dell’accusato. La regola della condanna che arriva prima ancora di un canonico contraddittorio e prima ancora del processo reale. Bonafede ora è al centro di questo corto-circuito mediatico-giustizialista che egli sesso e il suo Movimento hanno da sempre alimentato. Ed è la parte più debole. Attaccato da tutti e poco protetto dai suoi amici. Avrebbe bisogno di un buon avvocato, ma nel processo in pubblica piazza il ruolo del difensore non è contemplato. La nemesi mediatico-giustizialista di Bonafede è compiuta.

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martedì, 5 Maggio 2020 - 12:52
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