Caso Madonna, la «sentenza choc» e i titoli dannosi: così si azzera il valore dei processi e si confonde il lettore

Tribunale Giustizia
di Manuela Galletta

Ci sono storie, come quella di Alessandra Madonna, che fanno male al cuore. Ventiquattro anni, bellissima e vittima di un incidente. Vittima di una sfortunata serie di eventi che le hanno spento il sorriso e che ieri sono culminate nella condanna, per omicidio stradale, dell’ex fidanzato Giuseppe Varriale. Sono storie che vanno maneggiate con cura, soprattutto per chi fa informazione. Perché esse si trascinano dietro il peso del dolore di una famiglia, quella di Alessandra, che fa fatica a guardare alla realtà. Ed è proprio per rispetto a chi ha subito la perdita più profonda che l’informazione ha il dovere di rifuggire da titoli sensazionalistici, creati ad arte solo per richiamare l’attenzione del lettore. Titoli inutili e dannosi, e molto spesso anche sbagliati. «Ballerina investita e uccisa, sentenza choc: l’ex fidanzato condannato a 4 anni e 8 mesi» è il titolo che ieri pomeriggio, pochi minuti dopo la sentenza del giudice per le indagini preliminari Santoro del Tribunale di Napoli Nord, campeggiava sulle colonne del sito online di un rinomato quotidiano di Napoli e della Campania. Un titolo di sicura presa sul lettore, perché fa leva sulle emozioni. Ma errato, e al tempo stesso inopportuno e inadeguato. Non esistono «sentenze choc», tanto per cominciare. Esistono sentenze. Esistono sentenze che vengono emesse a chiusura di un percorso, di una lettura di atti, di analisi delle prove raccolte, di verifica delle testimonianze. Ecco perché quando l’esito di un verdetto non rispecchia le attese o la richiesta di condanna della procura non è un verdetto choc, perché vuol dire che qualcosa non ha funzionato nell’impostazione accusatoria.

Dire «sentenza choc», invece, equivale ad ignorare l’intero percorso della verifica processuale, equivale ad azzerare il valore del contraddittorio. Significa assumere per partito preso che la procura ha ragione e il giudice che ha emesso la sentenza ha sbagliato. Per carità, talvolta accade. E l’informazione è tenuta a sottolinearlo. Ma deve argomentarlo, deve avere una tale conoscenza degli atti giudiziari da poter dimostrare perché la valutazione di un giudice è stata sbagliata. Se non è così, il titolo «sentenza choc» diventa un titolo errato. E inopportuno. Finanche dannoso. Sì, dannoso. Perché amplifica il dolore di chi ha subito la perdita, dando la conferma che si è verificato un torto, che la Giustizia cui ci si era affidati ha schiaffeggiato la vittima e i suoi familiari.

La storia di Alessandra Madonna è esemplificativa di questo modo sbagliato di fare informazione, soprattutto su temi giudiziari. Tutti gli elementi raccolti durante la fase delle indagini, quelle coordinate dalla procura ma anche quelle condotte dalla difesa dell’imputato, viravano verso una sola direzione: la notte in cui è morta, Alessandra non è rimasta vittima di un omicidio per mano del suo ex fidanzato; Alessandra non è stata uccisa da un ragazzo che non accettava la fine della loro relazione. Alessandra quella notte si è recata sotto casa di Giuseppe (e non viceversa; il dato non è secondario) perché premeva per parargli e quando i toni si sono accesi, lui è salito in auto ed è partito. Per andarsene. Se avesse voluto ucciderla intenzionalmente, l’avrebbe investita, l’avrebbe sbalzata per aria. Invece la dinamica è stata diversa. Alessandra s’è aggrappata alla portiera dal lato passeggeri, Giuseppe non se n’è accorto. Ha avanzato per qualche metro. Alessandra ha perso la presa, è sbattuta contro una macchina parcheggiata e l’impatto le ha provocato un’emorragia. Giuseppe quando ha sentito il colpo s’è fermato, l’ha soccorsa, l’ha portata in ospedale. Fu omicidio stradale, ha concluso il giudice Santoro. Fu la tragica conseguenza di una serie sfortunata di eventi che si sono inseriti nel solco di un rapporto complicato tra due ragazzi. Un rapporto litigioso, ma mai violento. Un rapporto che è stato pure scandagliato perché, alla morte di Alessandra, i genitori di lei affermarono che Giuseppe la perseguitava, circostanza che lasciava aperta l’ipotesi di un omicidio volontario. E’ emerso il contrario.

E’ emerso che Alessandra gli inviava messaggi, che chiedeva di incontrarlo, nonostante ormai la ragazza frequentasse un altro giovane che pure aveva mostrato gelosia per l’interesse che Alessandra provava ancora per il suo ex. Non sono dati secondari, questi, per raccontare la storia del processo, per leggere la sentenza. Sono dati essenziali per consentire a un lettore di capire come sono andate le cose. Ma quel titolo «sentenza choc» che troppo spesso ricorre nella narrazione dei fatti di cronaca azzera tutto questo, lo rendo inutile, un orpello, un dettaglio sul quale non vale neppure la pena soffermarsi. E questo non è rispettoso né rende onore alla verità.

giovedì, 29 Novembre 2018 - 14:00
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