Caso Cucchi, i giudici d’appello: «Fu un festival dell’insipienza. Lo Stato non può disinteressarsi di un detenuto»

Stefano Cucchi

Lo stato non può disinteressarsi di un detenuto, per quanto fragile e poco collaborativo, per quanto sia una persona che caparbiamente rifiuta trattamenti sanitari. Lo scrivono i giudici della Corte di appello di Roma nel documento di 69 pagine in cui illustrano le motivazioni della sentenza con cui, nel 14 novembre del 2019, disposero una assoluzione e quattro prescrizioni per i medici dell’ospedale Sandro Pertini di Roma che erano imputati nel processo sulla morte di Stefano Cucchi. In quel processo, i cinque medici erano stati chiamati alla sbarra con l’accusa di omicidio colposo.

«Lo Stato – si legge nelle motivazioni –  ha certamente il diritto di fare un prigioniero, ma non di disinteressarsene. Questo è il terreno del tutto trascurato, in cui una vicenda, dal punto di vista giudiziario banale (un arresto in tema di stupefacenti), volge in pochi giorni in tragedia».

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«Cucchi – prosegue il documento – rappresentava indubbiamente un paziente di difficile approccio, probabilmente scarsamente disponibile all’interlocuzione, forse con venature antisociali, certamente oppositivo ed ancorato ad una caparbia ed infantile posizione di rifiuto dei trattamenti». Per i magistrati però «è troppo sbrigativo e troppo semplice affermare a questo punto che il paziente rifiutava le cure ed i trattamenti e quindi nulla può contestarsi ai sanitari».

«Un festival di insipienze – è il giudizio della Corte di Appello rispetto alla vicenda giudiziaria e umana di Cucchi – che deve aver prodotto una reazione, definiamola puerilmente sdegnata, da parte di un soggetto verosimilmente già portatore di proprie fragilità. Di qui il passo e’ breve: lasciarsi andare, optare per il tanto peggio tanto meglio per far nascere nelle persone che si reputano intimamente responsabili del suo stato il senso di colpa».

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martedì, 2 Febbraio 2021 - 16:20
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