Imprese ko e rischio prezzi pazzi, il prof D’Acunto: «Pianificare e ripartire da un’economia di guerra» | Intervista

Il professore Salvatore D'Acunto
di Roberta Miele

Questa intervista è stata pubblicata sul quotidiano digitale mercoledì 25 marzo, consultabile esclusivamente in abbonamento. La riproponiamo data l’attualità del tema. Per leggere il quotidiano digitale e i suoi approfondimenti (diversi dagli articoli proprosti sul sito in modo gratuito) basta abbonarsi.

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Rimettere al centro dell’agenda ‘economica’ la parola ‘pianificazione’, che «per 40 anni è stata considerata una brutta parola e quindi l’abbiamo rimossa». Perché solo così l’Italia potrà riprendersi da un’emergenza sanitaria senza precedenti che s’è tirata dietro una crisi economica dai danni incalcolabili.
Salvatore D’Acunto, professore di Economia Politica presso l’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” è certo che la strada da seguire sarà quella di iniziare a ragionare a «un’economia di guerra».

Professore, le misure adottate fino a questo momento dal Governo, secondo lei, sono sufficienti a sostenere l’economia in questo momento di blocco?
«Trovo difficile ragionare sulle misure prese dal Governo, perché non se ne capisce benissimo il quadro di riferimento complessivo. La sensazione è che si navighi a vista senza avere un’idea chiarissima della durata delle misure restrittive, e ovviamente a seconda che le misure restrittive debbano durare 20 giorni o 3 mesi, le cose cambiano di molto».

In che modo?
«Nel primo caso sarebbero sufficienti poche misure tampone per proteggere le categorie più esposte alla caduta della capacità di guadagno come lavoratori dipendenti, piccola impresa, commercio al dettaglio, professionisti. Nel secondo la questione sarebbe più seria e meriterebbe provvedimenti di tutt’altra natura».

A quanto ammonta l’intervento?
«Stime assai affidabili prospettano un calo del Pil nell’ordine del 4-5%, noi lo contrastiamo con una manovra di spesa in deficit di dimensione pari all’1,3% del Pil. Mi sembra veramente acqua fresca».

Per bastare almeno nel breve termine, in che misura dovrebbe essere previsto?
«Secondo gli studi più accreditati, se si vuole contrastare una (prevedibile) caduta del Pil del 5% serve almeno una spesa pari al 3% del Pil. Il vero problema è che è tutta spesa da finanziare con il debito, perché la BCE non può acquistare direttamente titoli di debito pubblico emesso dagli stati membri. Dovremmo indebitarci sui mercati finanziari internazionali, dove basta un movimento speculativo per ritrovarci a dover pagare tassi d’interesse mostruosi».

E se il blocco fosse più lungo?
«Dovremmo fare ragionamenti molto più complessi. Sarebbe persino difficile pensare di potersi confrontare con situazioni del genere con il modello di organizzazione economica “liberista” che ormai fa parte del DNA delle nostre economie».

Come interviene il decreto “Cura Italia”?
«Un po’ il problema se lo pone. Si parla qua e là di “incentivi”. Ci sono indicazioni vaghe, ma mi pare chiaro che il Governo abbia la percezione del problema che si potrebbe porre da qui a due mesi. Tra qualche settimana il modello di organizzazione economica che ha orientato i nostri sistemi negli ultimi 30 e più anni potrebbe collassare, e noi abbiamo solo idee vaghe su quali siano le alternative. Per 40 anni “pianificazione” è stata considerata una brutta parola e quindi l’abbiamo rimossa».

Quanto ha descritto fin qui come potrà riverberarsi sui prezzi?
«La dinamica dei prezzi dipende appunto dalla composizione della domanda con la composizione dell’offerta».

Può fare un esempio?
«Se la gente vuole consumare formaggio, ma per qualche strozzatura produttiva manca un elemento indispensabile alla filiera della produzione di formaggio (per esempio l’allevamento di pecore), non se ne potrà produrre abbastanza e il prezzo tenderà ad aumentare. Non so se in Italia abbiamo abbastanza pecore da alimentare la filiera del pecorino, ma può applicare lo stesso ragionamento a qualunque bene. L’Amuchina di questi giorni è un caso caratteristico. Il fatto che non si trovi nelle rivendite mi fa pensare che probabilmente c’è qualche strozzatura produttiva, per cui non la si riesce a produrre in misura tale da soddisfare la domanda. Per entrambi i prodotti non siamo certi di poter contare sulle forniture provenienti da altri paesi, perché questi avranno gli stessi problemi nostri e potrebbero aver interesse a tenersi per sé i beni prodotti dalle loro imprese».

E cosa dovrebbe fare l’Esecutivo?
«Un governo in una situazione come questa dovrebbe governare la struttura dell’offerta. Cioè incentivare le imprese a produrre i beni necessari ad alimentare le filiere che producono i beni ritenuti “strategici” in questa fase o, al limite, in mancanza di meglio, metterle su con i soldi pubblici. Insomma, qualcosa di simile ad un’economia di guerra».

Il ministro Provenzano ha parlato dei lavoratori in nero, poiché vivono nell’illegalità e sono tagliati fuori da tutto. E sono tanti soprattutto al Sud.
«È un problema che non è legato all’emergenza, e che ovviamente con l’emergenza viene alla luce in maniera drammatica. Abbiamo sempre affrontato questa e altre problematiche con grande ipocrisia, facendo finta di guardare da un’altra parte, e adesso i fatti di questi giorni ci costringono a guardarci dritto dentro».

Dunque, un nuovo inizio?
«Forse è una buona occasione per ragionare sul modo in cui limitare le possibilità di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Occorre cominciare a pensare a strumenti che rendano meno condizionante il bisogno economico, che rendano il lavoro una scelta, e non una sorta di capestro dentro cui infilare la testa ad ogni costo. In altri momenti ho espresso la mia predilezione per la sperimentazione di modelli di “reddito di base”, programmi di trasferimenti monetari svincolati dalla dimostrazione dell’esistenza di una condizione di bisogno e non condizionati alla disponibilità di accettare offerte di lavoro quello che una volta si chiamava il “reddito di cittadinanza”, prima che questa parola finisse per significare un’altra cosa, purtroppo…»

Che si basa sul concetto opposto.
«Esatto. Ma oggi il potere si esercita fondamentalmente confondendo il linguaggio e impedendo in questo modo ai cittadini di capirci qualcosa. Non so se siamo preparati culturalmente per un passaggio del genere. Siamo troppo imbevuti di filosofia libero-individualista. E troppo schiavi dell’idea della crescita economica, e della connessa mitologia della “produttività”, e quindi guardiamo con orrore alla prospettiva che si possa premiare qualcuno per “oziare”. Però dopo questi giorni secondo me tanta gente ripenserà all’ozio con un’altra prospettiva».

Si riferisce alla teoria
della decrescita felice?
«Sì, ha centrato il punto la crescita infinita è un non senso. E probabilmente il capitalismo è compatibile solo con una crescita infinita e allora forse il capitalismo è un non senso».

sabato, 28 Marzo 2020 - 11:57
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