Processo Rampa Nunziante, la guerra tra i testi. Leveque: «Minacciato da Minichini, mi disse: ‘Se vai in udienza ti rovino’»

Torre Annunziata, crollo della palazzina di Rampa Nunziante (foto Kontrolab)
di Roberta Miele

Mario Minichini era «ossessionato» da Massimiliano Lafranco. Ma sulla testimonianza di Mario Minichini, ascoltato durante le indagini e nel corso del processo per il crollo della palazzina di rampa Nunziante, avvenuto il 7 luglio 2017, uccidendo otto persone (tra cui due bambini), si regge l’accusa contro Massimiliano Lafranco, tra i quindici imputati, accusato di falso ideologico, crollo e omicidio colposo plurimo. Dalle dichiarazioni di Mario Minichini, secondo il pm Andreana Ambrosino, è emerso che Lafranco, proprietario dell’appartamento al secondo piano promesso in vendita a Gerardo Velotto, era a conoscenza dei lavori di ristrutturazione considerati la causa della tragedia. Mario Minichini avrebbe anche minacciato Antonio Leveque, dipendente del bar interno alla stazione Circumvesuviana oplontina e teste citato dalla difesa di Lafranco rappresentata dall’avvocato Elio D’Aquino. La circostanza è stata raccontata dallo stesso Leveque nell’aula Siani del Tribunale di Torre Annunziata in occasione della sua deposizione avvenuta mercoledì scorso, 5 febbraio 2020: «Fino a quindici giorni fa mi ha detto che qui non dovevo venire altrimenti mi rovinava». Per due volte Minichini ha chiesto a Leveque di non presentarsi nelle aule di giustizia. La prima intorno alla metà del dicembre scorso, durante un incontro in un bar, fissato in seguito ad una chiamata di Minichini sul cellulare di Leveque. La seconda, casuale, all’esterno di una salumeria. La richiesta sempre la stessa: «Come fai a testimoniare contro di me? Siamo amici da tanti anni». Ma da Leveque solo picche.

Ed è così che, prima ancora della ricezione della notifica della citazione, Antonio Leveque ha scoperto di dover essere ascoltato come testimone: «Sapeva tutto. Sapeva che dovevo venire a febbraio, mi ha detto ‘tu e Scognamiglio (Vincenzo, sentito durante la stessa udienza) andate a testimoniare contro di me’. Io ho risposto ‘faccio il mio dovere’. Poi ho ricevuto la raccomandata». Leveque e Minichini erano amici da tanto. Leveque, molti anni addietro, aveva lavorato nel bar che Minichini aveva a piazza Ferrovia.

La conoscenza tra Leveque e Lafranco invece risale al 2016: l’avvocato «veniva sempre a prendere il caffè al bar di Scognamiglio», essendo quest’ultimo suo cliente. Il locale era frequentato anche da Aniello Manzo e Mario Minichini, che aveva rapporti di lavoro con Vincenzo Scognamiglio per la compravendita di autoveicoli all’estero. Minichini, secondo il teste, era una sorta di ‘dipendente’ di Scognamiglio. «Non era contento di come era trattato economicamente. Aveva uno stipendio e quando faceva i viaggi per recuperare le macchine acquistate, prendeva qualcosa in più».

All’epoca Minichini aveva il bar Tiffany su cui gravava una procedura esecutiva e chiese aiuto a Lafranco. «Poi le cose non sono andate bene – ha spiegato Leveque – e ci sono state delle discussioni. Lo so perché Minichini si sfogava con me. Diceva sempre che doveva ‘portare fernuto’ Lafranco e il mio titolare», a sua volta coinvolto nella vicenda. I due sono stati in buoni rapporti finché «gli affari andavano bene». Poi, per risolvere la questione del bar, Minichini ha chiesto un prestito a Scognamiglio «che non ha potuto accontentarlo». Di qui, la rottura dei rapporti. «E – ha concluso il teste – non potendo attaccare il mio titolare, Minichini, io penso, ha attaccato il suo avvocato».

A spiegare la propria versione dei fatti è stato Vincenzo Scognamiglio in persona. Con conseguente emersione di elementi contrastanti rispetto al racconto di Leveque. Scognamiglio ha dichiarato dinanzi al giudice monocratico Francesco Todisco che «Lafranco veniva un paio di volte al mese al bar, Minichini anche meno». Nel 2016 «Minichini ha aperto la società in Bulgaria» e il suo rapporto con lui si limitava ad una collaborazione per la vendita delle auto: «Facevamo qualche cliente insieme. Lui comprava le macchine e io le vendevo. Prima non svolgeva nessuna attività lavorativa». Ed è stato proprio Scognamiglio, pregiudicato ritenuto molto vicino ai Gionta, a presentare, nel settembre 2016, Minichini a Lafranco, suo avvocato di fiducia. Confermata, invece, la circostanza per la quale Minichini gli abbia chiesto un aiuto economico. «Quando Lafranco gli ha detto che per il bar Tiffany doveva pagare dei soldi mi ha chiesto un prestito ma non potevo farglielo, così abbiamo rotto. Dopo questo episodio mi ha minacciato di denunciarmi alla finanza e ai carabinieri, mi mandava i messaggi su whatsapp». Dal divorzio professionale, avvenuto nel 2017, secondo il teste, non ci sono stati più rapporti tra i due, fino al luglio 2019, quando Minichini ha chiamato Scognamiglio spiegando di «non avercela con lui».

Della «ossessione» di Minichini nei confronti di Massimiliano Lafranco ha parlato l’avvocato Virginia Chierchia, suo difensore, tra il febbraio e l’ottobre 2017, nella procedura esecutiva ad oggetto il bar insieme ad altri immobili. «Lafranco ha indirizzato Minichini e il fratello verso il mio studio», ha spiegato la civilista. «Gli imputavano colpe, avevano atteggiamenti quasi ossessivi. Mi parlavano di lui come della persona che ha fatto saltare gli accordi mandando all’asta gli immobili, fuori da ogni logica giuridica perché la procedura risaliva al 2009». Un atteggiamento che ha costretto la legale «a cacciare i clienti dallo studio»: «L’ultimo incontro è stato allucinante, – ha concluso – parlavano sempre male del collega. Dicevano che non gestiva bene e correttamente i rapporti con un eventuale terzo doveva sostituirsi al debitore, purgando così la posizione».

Per quest’ultima udienza erano attesi gli imputati (eccetto Gerardo Velotto e Roberta Amodio, già ascoltati il 23 gennaio scorso) che avessero deciso di sottoporsi all’esame, ma nessuno si è presentato.

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lunedì, 10 Febbraio 2020 - 17:00
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